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2007 - Il Peso di un'immagine (di S. Berg)

IL PESO DI UN’IMMAGINE

di

Stephan Berg

 

Quanto pesa un’immagine? Di primo acchito, la domanda sembra assurda, in particolare se si prende alla lettera. Del resto, che rapporto esiste tra il peso materiale di un’opera e il suo valore artistico? Tuttavia, è precisamente la misurazione del peso di un’opera che ha sempre affascinato Antonio Scaccabarozzi durante il suo percorso d’indagine artistica iniziata quasi quaranta anni fa. Tutte le sue risposte rigorosamente logiche sono espresse, ad esempio, in 0.125 gr o 100 mg oppure in 40 cm3. Dal 1980, nell’ambito del periodo di lavoro chiamato Misurazioni, vi sono opere in cui una specifica quantità di colore è iniettata direttamente nella tela ripetutamente e, anziché rivelare ogni volta la stessa quantità, il colore si espande in macchie di diverse dimensioni. In un altro caso, 0.125 gr di grafite blu è tratteggiata obliquamente sul cartone sfumando in una progressione scalare da sinistra verso destra. Il periodo di pittura gestuale, marcatamente diagonale che caratterizza la serie Quantità (1983), i fogli di polietilene sottili e trasparenti sono in grado di accogliere una specifica quantità di colore monocromatico. Gli Essenziali (1990) sono pitture senza supporto in cui il colore si sostiene da sé e assume significato mediante una miscela di colla e acrilico.

Dunque quanto pesa un dipinto? Da un lato, pesa precisamente tanto quanto contiene in termini di materiale. Dall’altro, tuttavia, pesa quanto la somma di tutte quelle qualità che non possono essere pesate, misurate e determinate con precisione analitica. Scaccabarozzi ha sempre lavorato con tensione dialettica paradossale, all’interno dell’opera; ed è precisamente questa tensione che carica la sua opera di freschezza, chiarezza e attualità. Tutto ciò lo colloca a buon diritto in una posizione eccezionale nell’ambito delle definizioni essenziali di colore e immagine. L’aspetto peculiare di tutte le opere di questo artista è di chiarire una fondamentale differenziazione. E’ una questione di differenza fra ciò che è fisicamente presente, sin dall’esordio dell’artista, in quanto prerequisito materiale minino, che è andato via via riducendosi, e ciò che con questo può essere creato in termini di complessità artistica ed esperienza visiva. Si potrebbe esprimere questa divergenza in termini di distanza tra peso esterno e misurazioni da un lato, e la sostanza interiore dall’altro. Nella lunga tradizione durante la quale la pittura ha consentito al colore di acquisire il proprio ruolo a pieno diritto, e al fine di distillare dalla costante riduzione del mezzo pittorico l’essenza della sua esperienza, che vive di vita propria e si crea da sé, l’opera di Scaccabarozzi lascia una profonda impressione per la totale assenza di solennità imbevuta di pathos. Ciò che si offre alla vista è il meglio dell’elementarità senza, tuttavia, alcuno scivolamento nelle brume della sublimità cerimoniosa; è metodicamente esatto, senza tuttavia cadere vittima delle trappole dell’autocompiacimento. L’opera di questo artista emana un’arguzia ammiccante e filosofica che, con un sorriso benigno, ma una morsa costante, conduce oltre lo spazio espositivo sia il dito indice alzato sia la rivendicazione all’assoluta validità.

 

Già nel 1979 Scaccabarozzi mostrava con Misura reale - misura rappresentata quali perfette scintille d’intelligenza artistica riuscivano a levarsi da questi elementi. Una fotografia in bianco e nero raffigura uno sparuto lembo di foresta e, sullo sfondo, i contorni di alcune case si riconoscono vagamente. Tra due tronchi che inquadrano i lati della fotografia, vi è una striscia bianca che indica 516 cm, in altre parole la distanza tra i due tronchi. Al centro della parte inferiore dell’opera, lasciata in bianco, si trova un segmento di metro i cui 41 cm corrispondono esattamente alla lunghezza della striscia presente nella foto. Tutto nell’opera gioca con l’idea di esattezza e precisione matematica, giusto per portare queste ricercate qualità ad un paradosso d’ironia e filosofia.

Non esiste alcun sentiero che conduca dalla distanza reale degli alberi alla distanza riportata dall’immagine. La misurazione del mondo da parte di Scaccabarozzi e il dimensionamento di tale misurazione nell’immagine indica le differenze categoriche fra realtà, immagine di questa realtà e lo spazio privo di rappresentazione fuori dalla fotografia. Tutti questi elementi chiariscono in modo inequivocabile che ogni immagine può essere misurata e valutata solo in base a se stessa e in conformità a criteri assolutamente individuali, mentre al tempo stesso rimane connessa, contraddittoriamente proprio a quel mondo da cui cerca vigorosamente di liberarsi. Inoltre, il lavoro pone l’accento sulla sua doppia natura evidenziando come campo pittorico la zona compresa fra la striscia che indica la distanza fra gli alberi e il metro, definendolo come meta immagine: un’immagine dentro l’immagine. Come in un puzzle di fotografie, in Misura reale - misura rappresentata noi vediamo l’immagine come un’immagine dell’immagine, capace solo di affermare la propria realtà oscillando perennemente tra la sua impossibilità ad essere misurata e la sua misura esterna e rappresentativa.

 

Elementi di questa energia mentale e mobile si ritrovano in tutte le opere di Scaccabarozzi: un desiderio insaziabile di contrapporre qualsiasi rapporto equamente calcolato tra gli oggetti e le immagini, di rifiutare loro una soluzione armoniosa e autocompiaciuta. Nella serie Quantità e Essenziali, il movimento diagonale del pennello e della spatola costruiscono un’immagine con un bordo di colore frastagliato, dentellato, dove gli strati di acrilico e colla degli Essenziali, e i fondi monocromatici dipinti sul polietilene trasparente delle Quantità, appaiono intrisi di un costante ritmo vibrato subliminale e aggressivo. Nella misura in cui queste opere ripudiano il loro rispettabile status geometrico, rettangolare e chiuso riempiono sia se stesse sia lo spazio circostanze di un’irrequietezza esemplare. I bordi dentellati rodono la costituzione interna dell’opera stessa e si estendono sulla parete e nello spazio circostante dove, graffianti e affilati, smussano lo spazio circostante e si rivelano spigolosi e resistenti.

 

Al fine di evitare incomprensioni, è opportuno rilevare che il movimento delle opere non si spinge mai a un punto tale per cui, in un atto di distruzione o auto-aggressione, le suddette opere attacchino se stesse o l’ambiente circostante, al contrario, si tratta qui di un’impostazione sperimentale che oltre a rispettare l’imperativo estetico di un fondamentale equilibrio tra le forze centripete e centrifughe, vede l’equilibrio come il punto di partenza e obiettivo da perseguire. Ciò è particolarmente vero per le opere degli ultimi due anni, nelle quali Scaccabarozzi ritorna ad una configurazione più classica, pittoricamente sperimentale. Qui il punto di partenza è una tela completamente dipinta con un colore che è coperto in seguito da numerosi strati monocromatici e verticali di un altro colore, fino a sedici volte e oltre. Il colore di base influenza il numero di applicazioni proprio come queste alterano lo strato base di colore, ad esempio coprendolo quasi completamente, oppure facendolo trasparire maggiormente. In ogni caso, l’artista cerca sempre quel punto preciso in cui l’inizio e la fine di un’opera s’incontrano in equilibrio.

A tal proposito, va rilevato che Scaccabarozzi, durante i suoi studi sulla pura esperienza del colore, non si lasciò mai guidare o influenzare dalla tendenza generale e predominante di cedere ad un idillio emotivo e coloristico. Per lui rimane sempre aperto il quesito di com’è possibile connettere il colore, in quanto esperienza che ha raggiunto la propria intrinseca natura, e il carattere contraddittorio della realtà, senza tuttavia che il colore assuma aspetti illustrativi o mimetici. E’ sempre una questione di zone d’attrito in cui la propria misura individuale ne incontra un’altra estranea che scatena una fiammata creativa.

Gli strati pennellati e quei lavori irregolari, simili a gomma, che possono essere applicati ovunque – e che informano lo spazio proprio come loro stessi ne sono informati – rappresentano una delle possibilità per generare questo calore con l’attrito. Il foglio di polietilene con il quale Scaccabarozzi lavora dall’inizio degli anni Ottanta, sono un’altra possibilità. Nelle opere Quantità, questo materiale “povero”, industriale soggetto all’usura, non funge solo da vettore di colore finemente applicato, ma stabilisce la connessione fra il dipinto e la parete. Attraverso la sua carica elettrostatica, il foglio aderisce alla parete come una seconda pelle e si adagia contro, proprio come il colore, a sua volta, si adagia agevole e ben aderente alla superficie di polietilene. Senza altri mezzi d’ancoraggio alla superficie, queste opere rimangono autonome in sé e dunque soggette alle leggi della realtà: le variazioni di temperature come pure la forza di gravità fa in modo che, con il passare del tempo, il foglio si raggrinzisca o si onduli, senza alterare il suo stato aggregato – in modo simile a ciò che avveniva in Misura reale - misura rappresentata – offre testimonianza della connessione incancellabile e contraddittoria fra auto-espressione e imprigionamento letterale all’interno del mondo.

 

Con le opere realizzate dal 1996/97 in poi Scaccabarozzi chiarisce ulteriormente la sua posizione. Anche in questo caso, egli utilizza gli ormai noti fogli di polietilene ma, questa volta, senza dipingerli con il colore, limitandosi semplicemente a tagliarli in forme geometriche elementari appese alle pareti dalla loro estremità superiore, dove il materiale molto sottile, trasparente, di colori delicati o neri, muovono ad ogni alito di vento. Ciò che si svolge qui è una circolare danza dell’effimero. I leggeri fogli fungono da membrana per la luce che si riflette nelle pieghe e curvature, che è catturata dalle superfici diafane e va a impregnare il turchese monocromo o il blu chiaro, il grigio o i colori verde oliva con una luminosità in cui questo umile materiale artistico raggiunge una naturalezza sorprendentemente palese. I tagli ortogonali nel polietilene trasformano il foglio in una presenza che aleggia tra pittura, scultura e oggetto. Richiamando vagamente disegni architettonici e toccando costantemente il tema del segmento pittorico e della cornice, queste opere si concentrano, in modo preciso e attento, sui legami paradossali tra segno, significato e autosignificato.

Con una grande e voluminosa opera che ha realizzato nel 1998 Scaccabarozzi ha dato una valida formulazione a quest’interconnessione confusa e fertile. L’opera consiste in una porzione di polietilene trasparente, cinque metri di lunghezza per uno d’altezza, che è tagliato a forma di griglia per chiudere fuori lo spazio che si dipana dietro di sé, negando l’accesso. In quanto membrana permeabile, il polietilene attiva lo spazio e lo trasforma contemporaneamente in un’immagine di sé, nella misura in cui il lavoro è posizionato come una barriera tra lo spazio e lo spettatore. L’opera, a sua volta, trasforma la quasi inconsistenza del suo materiale in una proposta imponente, voluminosa e scultorea che, al tempo stesso, insiste sulla propria natura effimera. La struttura tagliata nel foglio offre la possibilità di leggere l’opera sia come rappresentativa sia autoreferenziale: come una griglia, una staccionata, una sequenza di forme geometriche elementari, oppure come una sequenza di quadrati pittorici vuoti e incorniciati. In quanto tale, tematizza il prerequisito essenziale per l’esistenza stessa dell’opera, in altre parole la sua delimitazione, la cornice, che descrive l’opera stessa come un vuoto. Questi quadrati chiariscono, in modo vero ed essenziale, che un’immagine può acquisire la caratteristica di offrire l’espressione della propria natura, solo trasformandosi nell’ombra di se stessa.

 

Tradotto dalla versione inglese da Mariolina Mapelli