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2012 - Elisabetta Longari, testo in catalogo per la mostra "Variabile", Fondazione Calderara

L’école du regard  (1)  di Antonio Scaccabarozzi

Elisabetta Longari

 
n. rouchota: Cosa diresti a qualcuno per aiutarlo a capire la tua opera?

a. scaccabarozzi: Direi di seguire il procedimento usuale di fronte a un oggetto d’arte. Quello di capire e dare senso a ciò che vediamo, attraverso una lettura attenta, raccogliendo più dati possibili, anche quelli apparentemente banali come: il titolo, la data, le dimensioni, il materiale usato, come è stato usato, perché, ecc. Tutte queste informazioni, che l’opera concede alla lettura, danno già un quadro significativo del pensiero dell’artista, che indica a quali livelli ci vuole portare.  (2)

 

 Indizi

 1.  I titoli

Il titolo, definito da Duchamp “colore mentale”, funziona anche nel lavoro di Scaccabarozzi come indicazione di senso. Vediamo in che modo.

   I titoli di Antonio appartengono in genere a due ordini diversi: alcuni sono composti dall’enunciazione di dati oggettivi, altri sono più liberi e poetici, altrimenti venati d’ironia, leggeri. Attingendo alla raccolta che le edizioni Pulcinoelefante (3) hanno di recente pubblicato in un prezioso libretto, qui di seguito si trascrivono quei titoli che sembrano contenere echi particolarmente attivi, che, per diversi motivi, non si spengono:

 Una idea sul quadrato [1971]
ore 11,30 GRIGIO AZZURRO [1991]
Misura/Distanza Tempo/ storia di un amore [1982]
E il suo contrario [1973]
Punto di vista variabile [1971]
Interesse a sinistra [1971]
Non prima. Forse dopo. Comunque adesso. Nero [1989]
Me l’ha dato Tommasino [1999]
Merate e non ricordo [2000]
Ventiquattro volte NO [1983]
Centottanta volte NO [1982]
Questo è giallo? [1991]
ROSSO SCURO IN QUESTO MOMENTO [1989]
Essenziale con luci pittoriche [1990]
Questo è rosa? [1991]
Processo di eliminazione del grigio [1976]
Introduzione al vuoto [1978]
Introduzione all’orizzontale annullata [1978]
Provenienza sconosciuta [2001]
Opalescente [2002]
SPECCHIO [1994]

   Scaccabarozzi faceva, guardava, assimilava con lentezza l’esito del suo fare, poi - non sempre - “riconosceva”, e quindi, solo allora, nominava.
Occorre dunque seguire il suo esempio, prendendo un certo tempo, utile a far decantare la relazione tra ciò che gli occhi vedono e il suono evocativo dei titoli. Essi sono punte di un iceberg ,come sostiene Natascia, «parte dell’enigma di Antonio».
   Lettore, ti si propone un gioco: di ciascun titolo tra quelli indicati più sopra, pare opportuno mettere l’accento su una parola-chiave, che sembra favorire particolarmente l’avvicinamento a qualche aspetto importante degli innumerevoli che con corrono a formare l’opera (quando il titolo è composto soltanto da una parola ci si è astenuti dal trascriverla nuovamente).

Quadrato: il riferimento, attraverso Malevic, Mondrian, Albers e Max Bill, è la geometria apollinea. Dal termine quadrato sembra, intuitivamente, e magari anche erroneamente, derivare la parola quadro. Sarà un formato sempre caro ad Antonio.

Azzurro: è il colore del cielo, della profondità, della lontananza, della trascendenza. Scaccabarozzi l’ha spesso usato.

Misura: il suo lavoro fa sempre i conti con la misura, inizialmente attraverso l’uso delle entità matematiche per verificarne l’applicabilità e l’efficacia, quindi più semplicemente, in un secondo tempo, dimostrandosi lontano da ogni forma di eccesso e dismisura.

Contrario: il gioco del rovescio è una necessità per mettere al vaglio qualsiasi affermazione.
Variabile: perché è la caratteristica più autentica della realtà, tocca familiarizzare.

Interesse: nel caso di Antonio, il suo principale interesse è rivolto a svelare l’essenza della pittura che è eloquente metafora della tensione tra essere e divenire, tra identità e differenza, tra visibile e invisibile.

Forse: un fare che si traduce in pratica costante del dubbio non può che svolgersi sotto il segno di un avverbio che indica l’eventualità.

Tommasino: l’inserimento del nome proprio di un amico sottolinea che gli affetti quotidiani sono anch’essi fili del tessuto della pittura.

Ricordo: in forma consapevole e inconsapevole, con la rêverie e il desiderio, rappresenta le “scorie” che concorrono al processo della visione.

No: l’opposizione necessaria.

?: la centralità dell’interrogazione.

Momento: qui e ora, richiamo alla coscienza della fenomenologia e alla fenomenologia della coscienza.

Luci: senza luci non sapremmo che farcene degli occhi. Ogni colore, si sa, è un diverso comportamento della luce.

Rosa: aurorale è la caratteristica prima del colore rosa, ma facilmente, per estensione, di ogni colore di Antonio in cui sembra sempre prepararsi un’alba.

    A questo punto occorre interrompere la catena associativa per chiedere ammenda al lettore: ci si avvede soltanto adesso di essere obbligati, dalla materia stessa, a trasgredire la regola del gioco precedentemente stabilita (una parola per titolo), ma la condizione non risulta particolarmente problematica, poiché la si sente e la si conosce come perfettamente in linea con i procedimenti di Scaccabarozzi. Non riuscendo a scegliere tra processo ed eliminazione, siamo costretti a segnalare entrambi e, per contrastarne l’effetto di ridondanza, si evita di far seguire qualsiasi indicazione di lettura, per riprendere quindi dal punto in cui ci si era interrotti.

Vuoto: il vuoto è assai più attivo del pieno, come sanno gli orientali.

Introduzione: parola vicina ad approssimazione.

Sconosciuta: in questo termine risuona, come il suono del mare nella conchiglia, il richiamo verso la scaturigine di ogni atto creativo.

   Ma sai, lettore, che a rileggere un’altra volta da capo l’elenco dei titoli selezionati, sembra che sarebbe stato più significativo invece sottolinearne quelle parole che, nel gioco delle libere associazioni condotto più sopra, in prima battuta sono state escluse?

  

2.  Sperimentazione e metodo

 «Sono un creatore di regole. E poi, create queste regole, questi giochi, questi meccanismi, posso giocare io, posso far giocare gli altri».
   La precedente affermazione di Alighiero Boetti sembra essere particolarmente calzante soprattutto alla fase iniziale della ricerca di Scaccabarozzi, quando mette alla prova il linguaggio della pittura nelle sue componenti elementari. (4)
   Seguire un metodo conduce presto alla scoperta che il miglior metodo è il superamento dello stesso.
   La misurabilità, ad esempio, di cui Antonio svela la convenzionalità usando inizialmente anche il medium della fotografia. Le opere note come Misurazioni, il cui titolo per esteso è Ovvietà delle misure-poetica delle distanze, lo tengono occupato dal 1979 al 1982. Derivano da processi di esplorazione sulla misurabilità in generale e, in tutta la loro evidenza introducono, attraverso il paradosso, a una riflessione sulla discrepanza tra conoscenza e percezione, come Trois stoppages etalon di Marcel Duchamp.
   «Il risultato pittorico oscura il punto di partenza concettuale [...] Scaccabarozzi indaga le relazioni fra il peso reale del pigmento e la capacità della sua decifrazione visiva», per dirlo con le parole di Wolfgang Vomm (1994). (5)
   I metodi d’indagine sono numerosi, si vedano le Iniezioni endotela (1980) e le Immersioni (1982): le prime derivate dall’azione ripetuta di iniettare il colore con una siringa nel tessuto della tela in modo da verificare ogni volta che esso, espandendosi a macchia, occupa la superficie secondo modalità sempre diverse e imprevedibili; le seconde frutto di un “bagno” della tela nel colore. Proprio a proposito delle Immersioni, Antonio stesso diceva: «A questo punto quale misura bisogna dichiarare? Tempo? Volume? Misura lineare?». (6)  In effetti, dall’osservazione degli esiti dei suoi esperimenti, consistenti in questo secondo caso nell’imbibire una determinata porzione di tela dalla trama più o meno fitta in un certo quantitativo di colore più o meno liquido, ne risulta con evidenza l’impossibilità di dedurne alcuna regola o legge; da ogni applicazione pratica deriva un diverso risultato che rientra in una casistica potenzialmente infinita.
   "Verificare le idee direttamente sulle cose” (7) è la spinta che lo muove e rende immediatamente individuabile la sperimentazione come componente più radicale della sua opera.
   Forse proprio in questo inarrestabile slancio a non mai tramutare il fare in formula, a non adagiarsi mai sul già conosciuto, in questa tensione a proseguire un passo dopo l’altro in un percorso interrogativo, a procedere nella sua ricognizione visiva per accertamenti progressivi non necessariamente univoci, in tutto ciò egli dovette sentire di avere assimilato l’esempio inquieto e sublime di Picasso. Ed è probabilmente per motivi analoghi, strettamente connessi al persistente elogio al dubbio che rappresentano ogni pensiero, parola e immagine concepiti da Pier Paolo Pasolini, che il poeta, regista, scrittore, polemista e pittore di Casarsa, entrò nel Gotha dei riferimenti imprescindibili di Scaccabarozzi. E a tale proposito, non bisogna neppure dimenticare l’importanza della “poetica del pastiche”, della mescolanza dei diversi piani: aulico e basso, tragico e comico, ecc..., che l’artista dovette apprezzare nell’opera di Pier Paolo Pasolini.
   Scaccabarozzi usa ogni materiale con un tocco unico. Perfino le plastiche, prodotte industrialmente per contenere i rifiuti, sono trattate in modo tale da assumere un comportamento luministico e cromatico cangiante e lieve, pari al settecentesco acquerello, colmo di preziosa grazia evanescente.
   Di ogni singolo materiale, dal più nobile per tradizione al più anonimo e “impoetico”, Antonio ha valorizzato le peculiari qualità percettive, costruttive e plastiche.
   Il corpo della sua opera non è comunque certamente riducibile alla messa alla prova dei materiali e neppure delle idee sulla pittura.
   In realtà, nonostante il suo lavoro si presenti come apparentemente semplice, a volte perfino elementare, sta in equilibrio su un crinale complesso e difficile, in una strana combinazione fra ascetismo e sensualità, a un’altitudine in cui l’aria è particolarmente pura e rarefatta.

 

 3.  La luce, il colore

Che la tela sia per Antonio Scaccabarozzi principalmente un filtro per la luce è indiscutibile. Forse in ciò, in questa dedizione alla pittura come luce, è il maggiore legame con Calderara.
   Se non bastassero i nostri occhi, vengono palesemente in aiuto storie infantili legate tanto alla paura quanto alla meraviglia della luce.
   Natascia racconta nel suo libro più recente, una sorta di ritratto di Antonio, che egli ricordava la mamma Armida, terrorizzata durante i bombardamenti, incollare fogli di carta blu alle finestre per evitare di rendere la propria casa illuminata un bersaglio troppo facile da individuare. (8)
   Le sue memorie sono costellate di schermi.
   Il passo più sorprendente è quello che fa apparire sotto i nostri occhi l’incanto prodotto dal giallo di Napoli (9) e che somiglia, per effetto di suggestione, alla descrizione che Proust fa, nell’inciso che narra la morte di Bergotte, di quel famoso e misterioso “petit pan de mur jaune” (10) su cui l’occhio si posa, durante la contemplazione della Veduta di Deft di Vermeer: accende una luminosità che immediatamente viene contagiata all’intera superficie del quadro. Elemento di difficile identificazione anche a un’analisi approfondita del dipinto, quel frammento di pittura “alchemica” nelle parole di Proust si rivela un dispositivo poetico che introduce un elogio al “non so che”, all’ineffabile, all’imprecisione, infine al vuoto che arricchisce.
Nelle nuvole che si materializzano miracolosamente, incendiandosi, sotto i nostri occhi durante la lettura del brano di Antonio, prende corpo l’evidenza di un’ immagine che è, a un primo più immediato livello di lettura, rappresentazione del filtro naturale per eccellenza, mentre presto si rivela anche come una convincente e compiuta metafora della pittura tout court. (11)
   A rileggere a ritroso la propria vita, i presagi si fanno più chiari; Antonio quando, molti anni dopo i fatti, si racconta all’età di dieci anni intento a spiare lo zio Alessandro mentre dipinge, ammirandone la capacità di catalizzare sulla tela le forze inaudite del colore attraverso una sola pennellata, comunica tanto il potere di seduzione del procedimento quanto il sorgere di una netta decisione interiore: «[...] ero sicuro che la stagione successiva, sarei stato io il pittore».
   Anche il ricordo del nonno a tavola, con la bottiglia di vino che produce un riflesso di luce colorata che ammalia il piccolo Scaccabarozzi, è un ricordo precoce da giovane pittore “in erba”: «Più in basso sulla tovaglia bianca, la proiezione dell’acquerello pulsante mi impediva di distogliere lo sguardo dalla sua trasparenza ». La consapevolezza sopraggiunta con il tempo gli farà dire nel corso del medesimo testo: «Alcuni mesi fa quando la logica interna al mio lavoro, suggerì l’idea dei primi acquerelli in assoluto di tutta l’attività, mi ricordai di questa esperienza. Con piacere mi trovai a pensare che gli acquerelli di oggi, li abbiamo iniziati insieme quel pomeriggio, anche se per tanti anni sono rimasti nel mondo segreto del bicchiere di mio nonno Pinino». (12)
   La luce del pigmento, imbottigliata in soluzione acquosa nel vetro trasparente, è certamente un omaggio al nonno, ma ancora di più sembra volere onorare la magia cromatica di una presenza liquida, quasi impalpabile agli occhi eppure tanto potente e incontrovertibile, che svolge la medesima fiabesca funzione del Genio rinchiuso nella lampada di Aladino. Quando si stapperà la bottiglia, quella luce bagnerà la carta e, allagandola, paradossalmente ne potenzierà il chiarore. Negli acquerelli di Antonio la carta o la tela a volte sembrano sparire, mentre il colore risplende libero come un sole segreto, una luna potente e ritrosa, un cielo vasto e altissimo. A volte invece i dipinti diventano oscuri e lucenti come corteccia d’albero bagnato.
   Acquerelli, Velature, fogli e tele che sembrano spingersi al limite della smaterializzazione per spalancarsi alla luce. L’autore stesso si interroga sulla loro natura, a volte così tenacemente da conservarne la domanda perfino nel titolo: Ma questo è giallo? Ma questo è rosa? In realtà sono sospetti cromatici quelli che nascono come presagi nei nostri occhi. Puro, tenue e necessario, quasi allo stato nascente è il colore, presente ma sempre più voltile nel suo cammino verso la luce. Forse è questo il terreno in cui Scaccabarozzi incontra anche Corot, autore probabilmente guardato in sordina, oppure inconsapevolmente, ed è certo dove il richiamo concettuale a Klein trova più fondatamente riscontro.
   E sempre in un colore, certamente più inventato che visto, è identificabile la sua familiarità con altre più significative esperienze: per quel rilasciare lento della luce che le stesure di Rothko, anche le più oscure, sprigionano e per quel “sentimento luminoso dello spazio” che Claudio Cerritelli evidenzia nella pittura di Calderara come uno dei motori più profondi. (13)
   Colori labili, fuggitivi eppure tenaci nella loro irriducibile singolarità, spesso equivoca. Il loro fascino, ambiguo e sottile, è particolarmente conturbante. A volte un colore richiede diverso tempo prima di rendersi accessibile, visibile, e, per sua natura, tende a sottrarsi a ogni definizione.

    Un lavoro che trova di volta in volta il suo alfabeto primario e agisce come pulizia dello sguardo dell’osservatore, proponendogli in modo discreto ma perentorio un esercizio di “affinamento” della percezione. Tanto più il diluvio d’immagini della società di massa ottunde i sensi fino ad intasarli, tanto più la sete di vedere davvero qualcosa sembra farsi inestinguibile. Scaccabarozzi risponde a quella sete con oceani, limpidi di luce smagliante e velati di ombre soffuse, aprendo “strappi” immensi nello scenario quotidiano.
   La sua pittura fa schiudere negli occhi pori capaci di assorbire consistenze inusuali, fa spuntare papille capaci di gustare sottili scarti sconosciuti. Da qualche sporadico tentativo iniziale di attivare la superficie attraverso l’immissione della possibilità di un movimento reale (si veda ad esempio Quadratomobile Diagonale, 1969), Scaccabarozzi passa presto alla sfida di definire lo spazio e renderlo pulsante tramite un intervento che crea ritmo, al principio mediante elementi tridimensionali (“Fustellati”) quindi bidimensionali (“Puntini”, ovvero Prevalenze), affidandosi sempre maggiormente al potere della pittura, lasciandosi progressivamente alle spalle congegni e rilievi. Le superfici diventano membrane sempre più aeree e sensibili, finché non irrompono le “Plastiche”, porzioni di colore elettromagnetiche e mobili, portatrici di un quid aleatorio, leggero e felice. Capaci di rabbrividire come pelle.
   «Venivano applicate al muro nella parte superiore, così da sollevarsi liberamente e ricadere con la leggerezza del loro corpo, al primo movimento d’aria». (14)
   Ma prima di affrontare i polietileni, l’apice dell’opera di Scaccabarozzi, conviene fare alcune considerazioni preliminari necessarie

 

4.

4.1 Essenziali
    «Sono spatolate di colore misto a colla, con uno scheletro in lana di vetro fissato dietro che serve a dar loro la stabilità strutturale necessaria. Queste opere non poggiano su una base, si posizionano direttamente a parete, mediante gancetti che Antonio fissa con estrema cautela sul retro». (15)

   Gli Essenziali sono costituiti da un insieme, un conglomerato di gesti solidificati in andamenti di colore monocromo che migrano liberi nello spazio dell’ambiente e che gli impongono una vistosa accelerazione.
   Rappresentano il più diretto antecedente delle “Plastiche”, che nel percorso di Scaccabarozzi assolvono la stessa funzione dei Papier découpé nell’opera di Matisse.

 4.2 Plastiche: la pittura come soglia
La curiosità di Scaccabarozzi dovette trarre spunto dagli esempi di Manzoni e Klein in fatto di disinvoltura nei confronti dell’uso dei materiali ”extrartistici”, almeno tanto quanto ne dovette derivare indicazioni verso la sensibilità per il monocromo come luogo esemplare della visione. «Quando ho scoperto questo materiale, il polietilene, ho subito intuito che possedeva numerose caratteristiche che corrispondevano alle mie aspirazioni di lavorare sulla trasparenza, sulla leggerezza, duttilità, instabilità ecc. Infatti il materiale si rivelò perfetto ». (16)

   Il foglio di polietilene risponde perfettamente all’esigenza di una pittura che si vuole semplice, elementare e variabile; il suo uso rappresenta la più compiuta sintesi tra gesto, forma e colore. Inoltre questo materiale, che introduce un alto quoziente di mobilità, dà corpo esemplare al concetto di pittura come soglia, membrana sensibile tra visibile e invisibile, di cui l’opera di Scaccabarozzi nella sua totalità si fa “figura” emblematica.
   Le Plastiche funzionano come carta moschicida per gli occhi.
   Le Banchise e soprattutto le Ekleipsis, la cui mobilità, altrettanto ricercata quanto imprevista, risulta essere il dato più immediatamente coinvolgente, si spingono ai limiti dell’orizzonte conosciuto; come Herzog con la sua cinepresa, Antonio concentra lo sguardo su fenomeni dalla consistenza dubbia, come chiarori opachi di profondità insondabile, quasi punte di iceberg, lambendo così le soglie della visione per sondarne l’ignoto spazio profondo.
   Questi due cicli, Banchise e Ekleipsis, appartengono per certi aspetti alla medesima genealogia di alcuni dipinti di Gerard Richter del 2009: superfici lattiginose, occupate da aloni biancastri, che occultano e al tempo stesso lasciano qua e là intuire i colori sottostanti a stento visibili. La pittura in questi casi coincide con la frapposizione di uno schermo che sembra attutire il senso della vista, come se una specie di membrana fosse cresciuta improvvisamente sopra le pupille, un glaucoma opaco, una placenta madreperlacea che rende “altra” la percezione in modo radicale. Lambendo la soglia della visione fino quasi al suo azzeramento, corteggiandone l’estinzione, la pittura insegna come si vede, instilla la consapevolezza del vedere. 

4.3 Velature come doubleure delle “Plastiche”
Quando si dedicò alle Velature mi disse: «Ho bisogno di sentirmi pittore». (17)

   Il testo che Antonio scrive nel 2005 per spiegarne la genesi e l’iter processuale contiene sul finale una considerazione interessante che vale la pena di sottolineare, perché ne svela la componente metafisica dello sguardo: «Nel corso del procedimento se tutto va per il meglio, ad un certo punto sopraggiunge un particolare stato emozionale ad indicare il compimento, facendo sentire chiaramente di aver raggiunto il senso dell’unione di questi due colori, che si fondono in una nuova unità attraverso la validità del processo. Questo risultato a volte si ottiene anche dopo una sola velatura». (18)
   La creazione di un’entità cromatica nuova, inedita, trova nei sensi una soddisfazione estetica ed estatica che coinvolge la sfera emozionale. È l’occhio interiore, sensitivo ed emotivo, che dice alla mano quando fermarsi.

 

5.  La natura insegna a vedere attraverso

 La coscienza insegna a vedere il vedere «Sto guardando in giardino da una finestra del pianoterra. [...] Guardo ancora qua e là, poi rientro con lo sguardo: ho giusto il tempo per rendermi conto di aver osservato la scena attraverso una tendina trasparente, il vetro della finestra, la zanzariera, la ringhiera di ferro battuto, senza accorgermi della loro presenza. Ora quegli oggetti frapposti, che non avevo notato, acquistano enorme importanza nella ripartizione dello spazio in distanza. Generano numerose connessioni, rimandano indietro la loro immagine e nello stesso tempo lasciano passare lo sguardo». (19)
   La dialettica tra occlusione e sfondamento dello sguardo è qualcosa su cui Scaccabarozzi gioca fin dal principio, già nei “Fustellati” e nei cosiddetti “Puntini”.
   La visione deriva da una sommatoria di fattori che concorrono a creare un meccanismo particolarmente complesso. Scaccabarozzi analizza, sposta, smonta e complica le soglie del visibile. In questa prassi il ragionamento è parte connaturata all’intuizione poetica, una sorta di corollario. Antonio infatti non segue un piano preordinato mentre asseconda alcune delle aperture che gli si presentano come possibili, proposte dalle forze dell’immanenza. 

5.1 Ricerca di “collaborazione”
Che l’osservatore è elemento centrale nella creazione dell’opera è ormai cosa universalmente riconosciuta, soprattutto da quando Duchamp ne ha formulato l’affermazione in modo lapidario: «è lo spettatore che fa il quadro». Da un passo di un’intervista raccolta da Luigi Erba nel 1981 veniamo a sapere che in quel momento Antonio stava lavorando a una serie di opere intitolate Strettamente personale, che nascevano direttamente dai “dettami” del cosiddetto “fruitore”: «eseguo infatti un lavoro a partire dalle risposte a due domande che sottopongo alla persona, chiedo cioè quali sono il colore e la forma geometrica che preferisce e in base a queste elaboro un manufatto che è quasi sempre una dichiarazione di superficie o di volume [...]». (20)

   Questa scelta, che ricerca l’intervento altrui per stabilire alcuni dati fondamentali su cui basare la propria operazione pittorica, rientra a pieno diritto tra le strategie di “spersonalizzazione” messe in atto, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, da diversi artisti tra cui bisogna ricordare Boetti, volte alla liberazione dalle angustie della dimensione individuale, dai suoi automatismi culturali ed estetici, introdotte al momento soprattutto per prendere distanza dai retaggi espressionistici dell’ “accademia” informale, per fuggire il compiacimento narcisistico dello psichismo quanto il virtuosismo della manualità e/o della materia.
   Anche le Immersioni (1980) e le Iniezioni endotela (1982), che nascono principalmente dall’intenzione di far parlare i materiali per quello che sono, trovano la loro più autentica ragion d’essere nell’effetto/sorpresa legato al comportamento, imprevedibile e sempre diverso, delle forze in campo.

 5.2 Il luogo dell’opera
«L’idea è di porre l’opera come zona-limite di forze contrapposte. Dove la tensione che si instaura fra la configurazione dell’oggetto e lo sguardo che l’oltrepassa, carichi questa idea di vitalità». (21)

   Appare evidente che l’opera si situa in una zona carica di tensioni, puria, formata in uguale misura tanto dalle intenzioni e dai gesti dell’autore quanto dall’interpretazione, anche di natura proiettiva, dell’osservatore.

La lezione di Fontana è stata probabilmente assimilata da Antonio suo malgrado, senza che venisse menzionata direttamente nelle testimonianze al momento accessibili; dovette essere un fatto perfettamente naturale, così come respirare, tanto è vero che ciò accadde a quasi tutti gli artisti formatisi a Milano negli anni Cinquanta. Sembra evidente in alcune “Plastiche”, soprattutto le prime che si avvalgono di un foglio unico - alle sovrapposizioni arriverà in un secondo momento-; esse hanno per lo più formato quadrato e funzionano come cornici, leggeri nastri che delimitano il “vuoto”, l’assenza, la neutralità rappresentata dalla parete monocroma, generalmente bianca, su cui sono applicate. Queste “cornici”, che a volte riquadrano porzioni di vuoto considerevoli, altre volte invece si schiudono in fessure sottili come la linea di luce, o di buio, che filtra, come presenza “altra”, attraverso una tenda tirata o una porta chiusa, funzionano da sottolineatura della concentrazione e dell’attenzione necessaria per la lettura di un qualsiasi fenomeno visivo. Il bianco della porzione di parete esterna a esse è diverso dal bianco “ritagliato” al loro interno. Solamente lo scarto, la differenza offrono la possibilità reale di conoscere l’identità.

  

6.  La leggerezza

Scrive Natascia nel suo ultimo libro talmente ricco di spunti da far sì che non si possa resistere alla tentazione di saccheggiarlo:

   «Quando un soffio di vento muove le foglie e le fà fremere, gli insegna a star leggero con la mano con le forme coi colori sulla tela e a dare spazio, peso e significato al vuoto». (22)
   La natura, con i suoi cicli, insegna anche che tutto è mutevole e nulla resta uguale. Neppure l’arte può sottrarsi a questa logica. Il controllo è un’illusione.
   Antonio lo sa fin dagli anni Settanta, gli è chiaro quasi da subito, con certezza dai tempi dell’ avventura dell’Interrogazione sistematica (1977), insieme a Nato Frascà e Paolo Minoli, con il supporto del pensiero critico di Alberto Veca e Paola Mola. (23)
   In tempi più recenti, la scelta dei fogli di polietilene porta con sé l’elezione della leggerezza, della fragilità e della precarietà come valori fondativi, di cui solo il primo è stato indicato da Calvino (24) come parte dell’attrezzatura necessaria da importare nel terzo millennio. Le indicazioni di Antonio, più attuali rispetto a quelle dello scrittore, si rivelano particolarmente utili per orientarsi nel mondo “usa e getta” che Guido Viale (25)  ha disegnato in modo particolarmente nitido sotto i nostri occhi.
   Ogni tappa del percorso di Scaccabarozzi, ogni opera, obbliga a fare il punto esatto in cui ci si trova: strappa l’osservatore al brusio dell’abitudine, per consegnarlo a un luogo di realtà “altra” capace di produrre, come uno specchio vuoto, pura riflessione; chi guarda viene a trovarsi in un “campo” connotato da un silenzio che ha lo splendore di certe mattine d’estate, chiarissime, combinato assieme allo spleen del crepuscolo.
   Questo “quasi nulla” che occupa le superfici è capace di sprigionare, di portare con sé il presagio di una totalità complessa e vertiginosa. Un senso di sospensione e di attesa completamente gravido ne è il retrogusto più netto. Come ha scritto Luigi Erba, «[...] Vedere è come essere risucchiati da un pensiero che l’artista non ha ancora espresso. Ciò che deve accadere è ancora più assoluto.  È il senso totalizzante dell’attesa...». (26)
   L’osservatore dei dipinti di Scaccabarozzi si trova implicato nel vivo del processo stesso di formazione del vedere. A tal proposito è opportuno citare l’installazione realizzata nel 2004 a Edimburgo, (27) in cui un foglio di polietilene trasparente teso, come un diaframma, a tagliare in due porzioni la stanza, funziona come una soglia che crea uno scarto nella modalità di percepire, come una lente che, alterando la visione, implica perentoriamente la consapevolezza degli occhi che la attraversano.
   Certo, ritroviamo anche in Burri l’uso a volte di un “foglio” di plastica come schermo tra l’osservatore e lo spazio dell’ambiente, ma sempre in modo parziale e soprattutto per esaltarne i valori espressivi e drammatici, molto diversamente da Scaccabarozzi, attento invece esclusivamente ai valori peculiari, elementari e strutturanti.

  

7.  L’ambiente come pittura

La sua pittura mostra tanto una precisa autonomia quanto una vocazione ambientale.
   L’interesse per il coinvolgimento dell’ambiente, presente in nuce fin dai tempi dello “spazio totale” dei “Fustellati” e dei reticoli geometrici creati dalle Prevalenze, è testimoniato apertamente dalla serie delle Barriere, che nella forma richiamano tanto lo steccato quanto il porticato del tempio greco. (28)  Esse vengono posizionate nello spazio in modo da funzionare come elementi che creano una vistosa alternanza, dal ritmo regolare: lo sguardo è a tratti libero di correre fino in fondo allo spazio percorribile per raggiungere il punto di saldatura tra il pavimento e le pareti, altrimenti si trova respinto dalla rete di rimandi luminosi e invischiato nelle trasparenze, profondamente condizionato dagli effetti prodotti dalla presenza della membrana di plastica.
   Una installazione in particolare sembra essere il frutto di una specie di gioco del “rovescio” praticato nei confronti dell’intervento, spoglio e radicale, realizzato a Edimburgo e descritto più sopra: si tratta dell’installazione nella Sala Civica Comunale di Merate nel 1994, in cui l’attivazione dello spazio dato viene ottenuta tramite la disseminazione fitta e regolare di un pattern di Essenziali, che riprende esattamente nella forma, nelle dimensioni e nel colore i riquadri di cui è costituita la decorazione del pavimento. L’effetto di moltiplicazione, raggiunto con gli Essenziali che contrastano particolarmente con lo sfondo delle pareti candide su cui si stagliano, immette lo spettatore in una scacchiera tridimensionale, resa improvvisamente abitabile. (29)

  

8.  A proposito dello stile

 n. rouchota: «La tua opera è apparentemente astratta, nel senso che non riproduce un’immagine già conosciuta. Tu come ti definisci?»

a. scaccabarozzi: «Proprio per questo io mi definirei piuttosto un realista, dato che non riproduco un’immagine conosciuta nella realtà che ci circonda, ma produco un’immagine sconosciuta della realtà, dalla quale dare avvio a un’avventura conoscitiva ». (30)

Perfino Bacon rivendicava per sé la qualifica di “realista”. Ogni pittore dipinge ciò ch Scaccabarozzi è affacciato a una terrazza celeste. 

Sul finale del suo ultimo già citato libro dedicato ad Antonio, Natascia annota: «Le ultime parole che ho trovato scritte da lui su un taccuino che gli avevo regalato, sono Realismo? Pensato?». (31) Ancora e sempre il suo pensiero assume forme interrogative. 

Nel caso di Scaccabarozzi lo stile non è certamente questione eminentemente tecnica e neppure linguistica, ma coincide con un discorso legato alla qualità e alla pulizia della visione. Sotto questo aspetto forse il più vicino è Morellet?

  

9.  Procedere per cicli

Ogni serie, generata da un nuovo dialogo con i materiali e i metodi, costituisce un tassello di un percorso esemplare di sperimentazione e ricerca sui modi di attivazione della superficie.
   Così come Burri si dedica a un confronto variato ed esclusivo con l’espressività della materia, Antonio indaga sottilmente le possibilità strutturali della visione. I suoi cicli, come quelli di Monet e di tutti coloro che non hanno alternativa alla serie, una volta evidenziati, stabiliti e posti in azione gli elementi e i valori di base, sembrano saggiare, attraverso la loro declinazione, l’inesauribile diversità della pittura.
   Ogni quadro è una tappa provvisoria di un’inchiesta profonda e radicale, come ha ben detto Alberto Veca (32), un frammento strappato all’ininterrotto flusso esplorativo e cognitivo.
   L’idea della serie, del ciclo, contiene naturalmente l’idea della “ripresa” e della “variazione”, esattamente come un fraseggio nella musica jazz, genere che Antonio apprezzava forse più di ogni altro.

  

10.  Il tempo

 Nell’archivio del fotografo Luigi Erba è stato rinvenuto uno scatto datato 1980 che raffigura Antonio Scaccabarozzi ripreso di schiena, col volto riflesso in uno specchio appoggiato sopra un cavalletto e dal quale pende un orologio da taschino (la classica “cipolla”); il titolo è Autoritratto di tre minuti, una breve performance, segnale dell’intenzione di inglobare nella pittura la complessità della vita, l’impermanenza evidenziata dal fluire del teman po che sembra esserne il principale responsabile. A confermare la sentita necessità d’inglobare il tempo, la presenza di un’opera/ specchio, appesa in una stanza della casa-studio di Montevecchia: è una spoglia porzione di superficie specchiante in cui, naturalmente, si riflette chiunque vi si sporga. Il suo titolo, Misura/ Distanza Tempo/Ironia (1981), è composto da un insieme di quattro termini di cui ciascuno denota un aspetto fondamentale del fare di Scaccabarozzi. Soprattutto l’ironia che, in quanto distacco della passione, sembra includere automaticamente anche gli altri.
   Il lavoro per serie di Antonio ha indicato la centralità del tempo, evidenziato l’importanza dell’intervallo, del passaggio da un quadro all’altro, da un frammento all’altro dell’ inesauribile visione del mondo, sottolineato la funzione del margine e, per estensione, dell’angolo come luogo di tensione al cambiamento.
   Alcune opere rivelano una particolare attenzione per l’angolo. La più emblematica è certamente l’installazione dal titolo, eloquente e tautologico, Le Coin (33) in cui la pittura, eseguita direttamente sulle pareti, ne occupava esclusivamente il punto di congiunzione, ovvero l’angolo. Anche diversi Essenziali sfruttavano l’angolo degli ambienti in cui venivano posizionati. L’interesse dimostrato verso “il salto”, lo snodo in cui si attua il cambiamento d’orientamento dello spazio, che generalmente viene ignorato e acquisito come una sorta di margine neutro da parte dei pittori tradizionali che si limitano a occupare le pareti rettilinee, ribadisce che Antonio non vive il luogo della pittura come una superficie rassicurante su cui ri-produrre, ovvero produrre ancora una volta, gesti e tantomeno immagini. Alle certezze del già conosciuto ha evidentemente sempre, sistematicamente, preferito la ricerca.
   L’inclinazione a considerare l’angolo, il margine del campo visivo, i limiti della visione, rientra nella medesima logica dell’azione turbativa svolta da alcuni colori che, con il loro corpo impalpabile e sfuggente, mettono in discussione le soglie del visibile.
La pittura è prima di tutto attivazione di uno spazio. Scaccabarozzi sceglie di dedicarsi, coerentemente e fedelmente, alle alternative che la superficie e il colore sembrano avere, una volta escluse le formule già collaudate e i riferimenti estranei al linguaggio.

  

11.  Gli autori più amati

Preziose le note che Natascia compone restituendoci alcuni contorni di Antonio che altrimenti andrebbero perduti. Accenna agli autori amati: Nietzsche, certamente anche per il fondamentale concetto dell’eterno ritorno, e Proust, sicuramente per il suo essere, o voler essere, un Vermeer che usa le parole al posto dei colori. Una posizione speciale occupa Leonardo da Vinci, campione inarrivabile della curiosità che muove la ricerca scientifica e poetica, e che, nello specifico della pittura, restituisce la sostanza atmosferica, carica di aria e lontananza, attraverso lo sfumato.
   Non è forse pulviscolare anche ogni colore di Antonio? Leonardo si dimostra inoltre autore di una modernità straordinaria per la sua famosa affermazione, tante volte ripresa dagli artisti concettuali: «la Pittura è cosa mentale». I pensieri più compiuti di Antonio sono le sue opere.
   «Ogni tanto bisogna tornare alla Yourcenar» secondo la testimonianza di Natascia questa è una delle sue frasi preferite. Ma che cosa avrà voluto dire esattamente? Sarebbe importante indovinarne il senso...

  

Sentenza  (34)

Ordire trame visive, mettere alla prova il funzionamento percettivo che, com’è noto, non è riducibile alla meccanica fisiologica dell’occhio, ma implica diverse zone del sentire, regioni culturali e ragioni del cuore. Questo è il compito svolto costantemente da Antonio Scaccabarozzi nel corso della sua opera, vasta e variabile come lo sguardo.

  

Note

 1 L’Ècole du regard [trad. it. La scuola dello sguardo] è un modo alternativo per definire il movimento letterario francese altrimenti noto come Nouveau Roman, di cui il principale esponente è Alain Robbe Grillet. Al centro della narrazione vengono a trovarsi gli oggetti con la loro presenza incontrovertibile eppure inesauribile, nella loro muta “cosalità”, in un processo di scrittura che si posiziona lontano da ogni psicologismo dei personaggi e/o del narratore. Questa dicitura, Ècole du regard, viene applicata alla ricerca di Scaccabarozzi per sottolinearne almeno per due aspetti: l’azione di pulizia e la funzione educativa che questa svolge nei confronti dello sguardo dell’osservatore, attraverso la centralità della presenza corporea dell’oggetto pittorico nella sua pregnanza.

2 Intervista del 2006 pubblicata in Antonio Scaccabarozzi. Talento & rigore, Casatenovo, Villa d’Adda Mariani, dal 9 al 13 aprile 2009, p. 23.

3 Antonio Scaccabarozzi, Titoli. 4 velature di terra verde, Osnago, 2012.

4 Paola Mola in uno scritto del 1977 individua con chiarezza la posizione culturale espressa da tali operazioni: «Una sorta di analisi grammaticale del linguaggio figurale: forme/colori/volumi fissati in una successione razionale di rapporti elementari, facilmente leggibili, che vuole essere una dimostrazione delle loro molteplici potenzialità, e soprattutto della loro relatività. L’oggetto è dunque la relatività del dato, quale emerge appunto da un dubbio, un’interrogazione sistematica, [...] atteggiamento operativo che implica la negazione di qualsiasi schema a priori come il rifiuto di qualunque metodologia che non sia la critica sistematica al metodo stesso di partenza, una volta assunti come unico punto d’avvio accettabile solo fenomeni scientificamente verificabili [...]. Arte che è ricerca, senza divine certezze e senza miti, sostanzialmente problematica, che traduce il proprio rifiuto di avellare posizioni mentali acquisite, nel rigetto, a livello operativo, di forme e colori in qualche modo già significanti, di qualunque siombolismo, metafora o referenza esterna» [Paola Mola, L’interrogazione sistematica, catalogo della mostra, Galleria Lorenzelli, Bergamo, maggio-giugno 1977; Studio Rotelli, Finale Ligure Borgo (SV), dal 9/7/1977.

5 Wolfgang Vomm, Antonio Scaccabarozzi. Eine Werkübersicht [ Il suo lavoro], in Antonio Scaccabarozzi, catalogo della mostra, Städtische Galerie, Villa Zanders, Bergisch Gladbach, dal 9 gennaio al 13 aprile 1994. Notes 6 Antonio Scaccabarozzi in Luigi Erba, Due “personali” in Germania del meratese Scaccabarozzi, in “Giornale di Lecco”, 29 agosto 1983, p. 3.

7 Ibidem.

8 Natascia Rouchota, L’emozione del metodo, Crocetti, Milano 2012, in corso dipubblicazione.

9 Antonio Scaccabarozzi, Giallo di Napoli, 2006, in “Nuova Mèta”, n. 31, Neos, Torino, 2010, pp.64-67.

10 Marcel Proust [1912], trad. it., Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino 1964, vol. III, p.174.

11 Si veda a tale proposito Hubert Damisch [1972], trad. it., Teoria della nuvola. Per una storia della pittura, Costa & Nolan, Genova 1984.

12 Antonio Scaccabarozzi, 1983.

13 Claudio Cerritelli, Visibili pensieri di luce, in Antonio Calderara, Fondazione Zappettini, Milano, dal 28 settembre al 25 novembre 2011, p.3.

14 Antonio Scaccabarozzi, Lo sguardo attraverso..., Atene, luglio 1995- Montevecchia 2000, in Idem, p. 29.

15 Natascia Rouchota, L’emozione..., cit.

16 Antonio Scaccabarozzi, in Idem, p. 39.

17 Ibidem.

18 Antonio Scaccabarozzi, Velature, 2005 in Antonio Scaccabarozzi. Talento... cit, p.47.

19 Ibidem.

20 Antonio Scaccabarozzi in Luigi Erba, Antonio Scaccabarozzi «strettamente personale», in “più idee”, Bergamo, aprile 1981, p. 55.

21 Antonio Scaccabarozzi, Lo sguardo attraverso..., cit.

22 Natascia Rouchota, L’emozione..., cit.

23 L’interrogazione sistematica era il titolo per una serie di incontri tenuti in più sedi: la galleria Lorenzelli a Bergamo, lo studio di Paolo Minoli a Cantù, lo studio Rotelli a Finale Ligure.

24 Italo Cavino, Lezioni americane, Einaudi, Torino 1988.

25 Guido Viale, Un mondo usa e getta,

26 Luigi Erba, Ragione-emozione, in Lecco Arte Festival, dal 16 maggio al 19 luglio 1998, p. 38.

27 Installazione alla Galleria Sleeper di Edimburgo, riprodotta in Antonio Scaccabarozzi, Antologica 1965-2008, P420, Bologna, dal 6 novembre all’8 gennaio 2011, p.20.

28 I templi classici furono ripetutamente meta dei viaggi di Antonio e Natascia, di nazionalità greca. In ogni modo, al di là delle contingenze biografiche, come scriveva Henry Miller, «La Grecia è ciò che ognuno sa, anche se in absentia, anche se è un bambino, o un idiota o un non ancora-nato». Si veda in particolare l’opera Senza titolo, 1998, 500x100 cm, la cui installazione nel 1999 presso la Villa d’Adda Mariani, Casatenovo, è riprodotta in Antonio Scaccabarozzi, Antologica 1965- 2008, cit., p.17.

29 Dell’opera, dal titolo 25 Riferimenti, si veda la riproduzione in Antonio Scaccabarozzi, Antologica 1965-2008, cit., p.16.

30 Intervista del 2006 pubblicata in Antonio Scaccabarozzi. Talento... cit, p. 11.

31 Natascia Rouchota, L’emozione..., cit.

32 Alberto Veca, Lettura a distanza, Milano, gennaio 2009, in Idem, p. 9.

33 Opera realizzata al Museè Cantonal des Beaux Arts, Sion, CH, nel 1988, riprodotta in Antonio Scaccabarozzi, Antologica 1965-2008, P420, Bologna, dal 6 novembre all’8 gennaio 2011, p.14.

34 Termine di cui qui si vuole ricordare il significato etimologico legato al SENTIRE.