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2012 - L'Emozione del Metodo (di A. Rouchota)

Natascia Rouchota



Antonio Scaccabarozzi

L’EMOZIONE DEL METODO

Traduzione dal greco Cristina Arici

 

CAPITOLO 1

Era lì, e questo bastava.


Era lì, accanto a me o lontano da me, a casa o non importa dove, e ogni cosa sembrava al suo posto. Ogni cosa partecipava alla mia felicità.
Bastava che fosse lì, da qualche parte, che esistesse entro i confini di questo mondo, che sapessi di poterlo vedere e toccare. Bastava che vivesse.
La felicità è uno stato dell’anima, una dolcezza infinita che ti anestetizza, e viaggi nel mondo fra cinismo e crudeltà, continui a viaggiare serena, leggera, senza paura delle onde e dell’oscurità dell’oceano.
Che cos’è la felicità, è quel momento magico che ti riconcilia con l’universo o forse è solo un’irrealizzabile chimera?
Nella mia vita era una terra ferma, soda, fertile, la patria della mia relazione con Antonio, riparata dalle tempeste che ne irrigavano il suolo e portavano sempre nuovo raccolto. Niente minacciava il nostro mondo.
Niente tranne la morte.
Così come venne. Intrusa, maldestra, irrevocabile.

 

 CAPITOLO 2

La vita

Antonio amava la vita e tutto cio che era in movimento o fermo o girava o danzava o dormiva, amava e basta. E neppure lo diceva, non lo
dichiarava, quasi lo infastidiva quel concetto, “amare la vita”. Mi diceva solo che la vita gli accendeva la curiosita, e andava avanti, per vedere “alla fine cosa succederà”.

 

CAPITOLO 3

La prima impressione

Quando lo vidi la prima volta, indossava un paio di jeans e una camicia di cotone rosso acceso, e teneva in mano due bicchieri di vino.
Me lo avevano presentato come il “pittore che faceva dei puntini su tela e su carta”, ed ero curiosa di capire come e cosa.
I suoi occhi erano neri e brillavano, per tutta la nostra vita insieme gli avrei ripetuto quanto erano incredibilmente neri, per me, i suoi occhi. Non avevo mai visto prima occhi cosi neri, e neppure mi capito piu di vederne, dopo Antonio.
Erano neri e brillavano, occhi ridenti, sereni, un po’ piccoli e distanti fra loro, occhi amati dal primo istante in cui li vidi. Non so se sia stato un
colpo di fulmine, sicuramente pero mi fulmino l’impressione che questi occhi parlassero alla mia anima e io alla sua, e che questo nostro comunicare sarebbe durato per sempre, non sarebbe mai venuto meno.
Cosa che avvenne.
Questo nostro intimo comunicare, che spesso sfiorava l’incredibile e piuttosto improbabile idea dell’anima gemella cosi come la ricordavo in Platone, ci ha accompagnati per tutta la nostra vita insieme ed e divenuto un insostenibile peso, per me, con la morte di Antonio.
Le mani di Antonio, mani grosse, possenti, stringendo le mie già plasmavano quel mondo che mi invitava a rimanere ospite per tutto il tempo che avessi voluto.
E io accettai subito, la sera stessa in cui ci conoscemmo avvertii i miei in Grecia che era successo qualcosa di importante (!) e che non sarei tornata la stessa di quando ero partita...
Tre giorni passammo insieme. Vidi la casa-atelier, sperduta nel parco di Montevecchia, sentii l’odore del nido e del suo abbraccio, strinsi il suo corpo nel mio e dissi si, qui, qui resto, vicino a te, con te, il tuo destino sara anche il mio.
Quelle tre notti le passammo quasi insonni. Antonio mi parlava della sua pittura, dei...misteriosi Puntini che altro non erano se non l’adozione di un “segno” cosi come precisamente lo chiamava, epicentro del suo interesse e a riferimento e definizione dello spazio, mi parlava delle montagne che avevano un posto tanto importante nella sua vita, degli anni che aveva passato a Parigi e di quelli dell’infanzia a Merate.
Parlava e intanto cucinava una profumata salsa di pomodoro, apriva una bottiglia di vino, stendeva sul tavolo una tovaglia bianca.
Tutto era perfetto, per me. I libri stipati negli scaffali che aveva sistemato da solo lungo tutte le pareti della stanza centrale, i quadri alle pareti dell’atelier, il gusto degli spaghetti e il garbato silenzio della campagna e noi li, spersi in mezzo al bosco a esplorare la nostra emozione un minuto dopo l’altro...
Nella stanza centrale della casa, un’opera suscitava in modo particolare il mio interesse. Era una QUANTITA’ di colore acrilico nero, che ai margini della tela lasciava emergere pennellate di verde e di giallo. L’opera, 50x70 cm., mi appariva come un gioco, uno scherzo in musica, una vocina scandalizzata che dicesse “sono qui, anche se non mi vedi...”
“Lo vendi?” gli chiesi.
“Te lo do” mi rispose.
Mi invito a rimanere li, se lo volevo, per tutto il tempo che mi piacesse e che andasse bene a tutti e due e io, in piedi davanti alla porta mezza chiusa accettai, dissi si, vado un attimo a prendere le mie cose e arrivo fra un mese giusto.
Il Natale del 1987, con indosso un vecchio cappotto boucle di mia mamma che una volta era stato verde ma io avevo tinto di nero, atterrai all’aeroporto di Linate con una sola valigia, neppure tanto grande.

 

 

 

 

(Per leggere l'intero racconto scaricare il file [PDF] allegato)

Informazioni aggiuntive

  • Autori: Natascia Rouchota
  • Editore: Crocetti Editore
  • Data 1a Edizione: 2012
  • Sottotitolo: Antonio Scaccabarozzi