1983 - Antonio Scaccabarozzi (di Alberto Veca)

Per alcuni anni, dal 1977 fino a ieri, Antonio Scaccabarozzi ha singolarmente perseguito una strada di rimessa in discussione dei preconcetti e degli stessi strumenti della pittura, in un ciclo di lavori, differenziati nei presupposti operativi e negli esiti, intitolati alla contrapposizione fra “l’ovvietà della misura” e “la poetica della distanza”, dove al primo termine viene attribuito l’asetticità di una unità capace di definire alcune caratteristiche (peso,lunghezza,durata) di un artefatto, mentre al secondo termine viene affidato il compito dell’azione concreta, capace di contrapporsi visivamente, o di confermare quanto precedentemente dichiarato.
Da una parte allora l’invarianza del nome, del criterio di individuazione e di classificazione di un fenomeno, evidentemente ristretto al titolo preso in esame; dall’altra l’ineffabilità e quindi la ricchezza e le implicazioni che l’azione produce, suggerisce, permette di immaginare.
E’ evidente in questo atteggiamento la necessità di ridiscutere, alla luce di un personale dizionario, lo strumento e il linguaggio che la stessa esperienza aveva fino allora suggerito e definito. E contrapporre il ‘nome’ alla ‘cosa’ prevede quella costante di distanza ironica capace di ribaltare, almeno nell’opera plastica, i due termini, dando una valenza relativa anche a quanto dovrebbe essere assoluto e adottare il criterio di constatazione del primo nell’operare pratico. Da questo punto di vista non esiste nell’operare alcun atteggiamento di “contraffazione, e di “correzione” del risultato; eventualmente l’inganno, la parzializzazione si afferma a monte del processo, appunto nella dichiarazione dell’unità di misura utilizzata.
Scaccabarozzi ha allora adottato, scegliendo un ampio quanto ulteriormente ingrandibile repertorio di tecniche, dalla stesura uniforme del pennello, all’immersione della tela nel pigmento diluito, all’iniezione sulla tela stessa, all’applicazione infine sul supporto di grumi di colore, verificando in questo modo i diversi effetti, o meglio i diversi comportamenti che gli strumenti materiali utilizzati (superficie e pigmento) realizzavano a partire dall’unità di misura dichiarata: dimensione lineare, area, volume, ecc. Le opere del ciclo risultano allora essere nomenclature di un repertorio tendente all’infinito, perché diverso è il comportamento della ‘cosa’ in quanto troppe e variate sono le componenti fisiche ma anche mentali e psicologiche in gioco: per questo risulta decisivo l’atteggiamento ironico, di distanza rispetto alla perentorietà dell’esperimento, alla corrispondenza fra l’immagine e la didascalia, risultando il primo registro incommensurabile rispetto al secondo, almeno sul piano logico; o a volte il secondo intricato nel primo, diventando la didascalia immagine, e quindi contraendo le medesime caratteristiche di azione negate sul piano verbale.
All’esaurirsi di questa fase, caratterizzata dall’esposizione degli strumenti di lavoro, dalla indicazione delle loro qualità, negando in questo modo alla dimensione espressiva una sua valenza illustrativa se non quella del puro e semplice processo operativo, Scaccabarozzi ha recentemente abbandonato l’impianto gabellare, del confronto fra azioni e materie diversamente trattate, per una più sintetica e perentoria operazione di pittura.
Ma su quest’ultimo termine occorre un breve chiarimento: escluso evidentemente una conversione al “mestiere”, il ragionamento sembra assumere quello più drastico del dipingere, come organizzare una campitura,e quindi realizzare nella radicalità della figura, i procedimenti, le attenzioni e le attese del fare espressivo. E’ evidente, rispetto a quanto detto precedentemente, una continuità a regolare l’intenzione dell’operare: non a caso questa nuova fase è accompagnata da un materiale di supporto e da una tecnica di stesura sostanzialmente diversa rispetto ai casi precedenti.
Nella sua indagine sui materiali infatti Scaccabarozzi ha trovato – ma in questo scoperta e invenzione sembrano seguire dinamiche parallele: la pellicola di Polietilene utilizzata in campo industriale che, una volta trattata per ricevere un adatto pigmento, conosce una trasformazione chimica che rende solidale la stesura cromatica alla superficie.
Ecco allora le nuove qualità dell’opera, la trasparenza e la duttile consistenza del supporto, dai contorni e dai comportamenti variabili da una parte, dall’altra l’assenza di spessore, di pittura applicata su una superficie che risulta trasformata dall’incontro con il pigmento. La difficoltà
di stesura, l’impossibilità di qualunque correzione o ritocco, la coincidenza quindi fra azione dell’artista e l’immagine risultante, l’inconsistenza infine di qualunque elemento di supporto che possa modificare l’oggetto: sono queste le caratteristiche materiali che hanno spinto Scaccabarozzi a approfondite progressivamente le risposte fisiche e le qualità espressive del nuovo mezzo. L’oggetto esiste solo in quanto risulta definito dalla stesura che, più o meno uniforme a seconda della consistenza del pigmento, occupa buona parte della superficie: alla apparente assenza di ‘misurazione’, o comunque di confronto, la figura, evidentemente variabile a secondo le dimensioni del campo, si costituisce costantemente con una porzione di perimetro esatta, secondo le regole della geometria, e la porzione restante lasciata a una più indefinita e irregolare chiusura, in cui risulta in modo esplicito la pennellata, le sue dimensioni, e quindi l’andamento, il processo operativo che ha reso possibile la stesura complessiva. E questa notazione dialettica, apertura a una comprensione delle fasi, e quindi ai tempi di realizzazione, viene ribadita dalla stessa collocazione sul muro o su un supporto del foglio di Polietilene steso e incollato dove il contorno della figura risulta esatto, libero e quindi capace di aderire in modo discontinuo alla base.
E sono proprio la fragilità apparente della consistenza del dipinto, l’indicazione del suo carattere, quindi della sua qualità a dispetto di una sua immediata impermeabilità, a rendere necessario il rapporto fra il materiale e la realizzazione dell’immagine.
D’altra parte, (e in questo senso una ricerca così aperta, comunque in questi ultimi anni diversificata come esiti, risulta molto più continua di quanto non possa immediatamente apparire) sempre più lucidamente l’intenzione espressiva di Scaccabarozzi sembra essere quella dell’opera come registrazione dei tempi e dei modi con cui può determinarsi la su realizzazione, in cui una cronologia esecutiva risulti chiaramente estesa, diventi il soggetto essenziale dell’operare.


Alberto Veca Milano, Luglio 1983

Informazioni aggiuntive

  • Autori: Alberto Veca - Storico e critico d'arte
  • Data 1a Edizione: agosto 1983
  • Sottotitolo: per la mostra Offensichtlichkeit des maβes / poetik der distanz, galerie Hoffmann, Friedberg, Germany