Il 12 Febbraio alle ore 18.00, presso la Nuova Galleria Morone di Milano, si terrà l'inaugurazione della personale di Antonio Scaccabarozzi "Introduzione al vuoto" a cura della dott.sa di Elisabetta Longari.
La mostra rimarrà aperta sino al 24 Aprile.
Nuova Galleria Morone
Via Nerino, 3
20123 MIlano (I)
t +39 0272001994
www.nuovagalleriamorone.com
Arte e (contro) movimento in Antonio Scaccabarozzi.
Si sa che l’artista, quando è tale, non compie mai un moto in avanti, un progresso rettilineo, uno sviluppo lineare, bensì traccia una curva che gira sul proprio asse, in un moto a spirale tendenzialmente infinito. È un vortice ritmato dalle proprie ossessioni, da manie, da fantasmi più o meno inconfessabili, da “sublimazioni”, ma anche da progetti e ricerche nate dall’intelletto e vagliate dal buon uso della ragione; la quale controlla i risultati, pone in essere nuove soluzioni, saggia le aspettative. Una spirale, dunque, il cui movimento va dalle fosche profondità di quella dimensione onirica e magmatica che, da Freud in poi, chiamiamo inconscio, per risalire alla liscia superficie luminosa della vita desta, alle chiare lettere che definiscono il pensiero e rendono leggibile un’opera. In estrema sintesi, si tratta del passaggio dall’anima alle forme; della volontà di ordinare la ricchezza dell’esperienze e del caos dei sentimenti, per dare forma alla vita, per carpirne il significato.
Fatto salvo che, durante il Novecento, si sono prodotte interpretazioni che vanno nella direzione opposta; ed è qui che nascono i problemi. Vale a dire, quando dai significati e dalle forme si vuole ridiscendere agli inferi della loro origine. A quella saison en enfer, anticipata da Rimbaud nel celebre “Je est un autre”, dove si ritorna in superficie, con gli occhi un po’ arrossati e, forse, con qualche ossa rotta.
È in questo “contro-movimento”, che apparentemente dall’alto si spinge verso il basso (o meglio, si dovrebbe parlare di contro-effettuazione, che per un istante arresta il flusso, per poi dirigerlo in direzione contraria), che affiora la necessità di ridefinire i termini del “fare” arte, estirpando in questo modo le radici di una possibile lettura tutta imbevuta di psicologismo, di vita interiore che si raccoglie intorno a un’immagine personalistica di coscienza, e quindi di artista tout court. Se c’è una cosa, infatti, che abbiamo imparato dalla lezione husserliana, radicalizzata dalla fenomenologia francese, è che la coscienza non è costituita da nessun essere, non riposa mai su se stessa, ma si manifesta come spinta verso fuori da sé. Dunque, è priva d’identità data e di unità prefissata, aperta e in costante autotrascendimento, “chiara come un grande vento”, per dirla con le parole di Sartre.
In questo modo, arte e vita, forma e forza, si lasciano alle spalle vuote sterilizzazioni conformistiche e false derive dissipative di ”espressioni di emozioni”. Perché non è solo questione di tirare da dentro verso fuori, d’ispirazione solipsistica, di godimento narcisistico, di io e di mondo; o di contrapporre il sentimento alla ragione o il sogno dell’arte alla veglia del pensiero e della critica. Quanto, piuttosto, di prendere posizione nei riguardi della vita, di darle una forma nuova, di ricrearla a partire dall’ambiguità del reale che porta con sé l’inquietudine di un’interrogazione incessante dell’esistente. È da qui che allora il contro-movimento diventa l’attimo dell’unione di ciò che sta fuori e di ciò che sta dentro; frammezzo da cui solamente partono i cambiamenti nelle due opposte direzioni, verso quelle fratture insanabili di cui spesso è tessuta la trama della vita.
Che si guadagna da tutto questo? Sicuramente l’incanto della nuda e pura esistenza. Quel dinamismo vorticoso che è massima espressione di energia e di libertà, innocenza irrinunciabile per qualsiasi vero artista, come lo è stato Antonio Scaccabarozzi.
Un artista che ha fatto del contro-movimento, è il caso di dirlo, una “ragione di vita”. Spirito libero, poco incline ai compromessi, egli ha infatti vissuto per l’arte sempre e comunque, malgrado le avversità che la direzione del destino, a volte, ha preso. Di umili origini (nato nel 1936, a Merate, nella provincia di Lecco) Scaccabarozzi nei primi anni ’50 si trasferisce a Milano e inizia a lavorare, giovanissimo, come disegnatore presso uno studio fotolitografico, mentre nelle ore serali frequenta, caparbiamente fino al diploma, la Scuola Superiore d’Arti Applicate al Castello Sforzesco (avrebbe voluto iscriversi all’Accademia di Brera, ma l’obbligo di frequenza diurno gli preclude l’ingresso). Sono anni duri, in una Milano segnata profondamente dalle differenze di classe, dove è facile essere schiacciati nell’angolo buio in cui si è nati, anche se si è promettenti e di buone speranze.
Sette anni trascorsi in una vita che gli va stretta, possono bastare. Decide quindi di lasciare l’impiego sicuro e in sella a una Vespa, accompagnato da un compagno di scuola del Castello, parte all’avventura. Dopo alcuni anni trascorsi a Parigi, dove farà il decoratore di scenografie teatrali; e poi, i viaggi a Londra, in Olanda e in altri paesi europei per “saggiare” il mondo (conoscerà Pasolini, Zeffirelli, la Callas), nel 1965 approda nuovamente a Milano. Lì espone i suoi primi lavori di ricerca geometrica- percettiva, i cosiddetti “puntini” del ciclo Prevalenze e i Fustellati. Si tratta di esperimenti sugli equilibri statici e dinamici di natura gestaltica, in cui sequenze di semplici unità visive, ottenute alcune per fustellatura, creano una tensione ottica dello spazio visivo. Sono lavori seriali, eseguiti con precisione quasi maniacale, dove l’estroflessione dei punti che alterano la superficie della tela, modulano effetti di luci ed ombre cangianti al variare dell'inclinazione della sorgente luminosa. Il loro intento, non è solo di dare ritmicità al quadro, spogliato da ogni riferimento naturalistico, tale da mettere a nudo le geometrie reticolate che ne formano lo scheletro strutturale, ma anche, e soprattutto, di problematizzare il punto di vista dell'osservatore dell’opera, d’interrogare l’atto percettivo stesso del fruitore.
Per Scaccabarozzi, la scelta è fatta. La pittura deve partire ed approdare al proprio fondamento, deve indagare le sue componenti elementari (luce, colore, forma, ritmo) superando ogni funzione referenziale, per scandagliare liberamente l’aspetto dinamico-formale verso l’astrazione, senza per questo perdere in concretezza.
Se dal punto di vista della storia dell’arte, il debito nei confronti dell’avanguardia milanese degli anni Cinquanta e Sessanta è scontato, e non solo di quella milanese (si pensi ad esempio a Victor Vasarely) non per questo, l’opera di Scaccabarozzi è priva di originalità e carica di sviluppi imprevisti. Infatti, negli anni successivi, il suo nome è accanto a quello di Alviani, Bonalumi, Castellani, Fontana o Dadamaino, solo per citare i più significativi. Tuttavia, la sua cifra stilistica non rimane ancorata ad una “scuola”, ad una corrente, seppur fondamentale, bensì interroga l’evento stesso del fare arte, il suo mistero, la sua contingenza irriducibile. Ecco perché la sua opera, nonè un fantasma inconscio che affiora tra le nebbie milanesi, né tantomeno una presa di posizione precostituita in funzione di logiche di mercato e di salotti, più o meno, buoni. Semmai è il frutto di una biografia scritta attraverso un modello ermeneutico, capace di fare dell’opera il centro di un’interrogazione temporale dell’assoluto singolare che è la vita. Allora il ricordo d’infanzia del nonno a tavola con il bicchiere di vino che riverbera la sua luce colorata sulla tovaglia diventano, proustianamente, magia cromatica, pittura “alchemica”, trasparente e leggera, che ritroviamo anche in opere successive come nel ciclo Geografia e Velature (2001-2008).
Nel colore ritmato degli Essenziali (anni ‘90), così ricchi di luce e d’aria di Cefalonia, l’isola dei nonni di “Natassy”, la compagna di Antonio, scopriamo, invece, un alfabeto cromatico famigliare steso su una tavolozza concettuale, ineffabile e sottile, anche se tratta da materiale grezzo: quasi un esercizio di pulizia visiva, che vuole resistere eticamente all’anestetizzazione e al consumo dei sensi della nostra epoca.
È sempre la memoria la dimensione privilegiata in Iniezioni Endotele ( anni '80), quando indaga il rapporto tra quantità fisica di colore e la sua facoltà di declinarsi in estensione. Indagine che trova un seguito nelle Quantità, in cui la tensione interrogativa sulla misura temporale dell’agire pittorico diventa ora oggetto di rappresentazione estetica; il segno da valore quantitativo si tramuta in domanda squisitamente filosofica: “quanto vivo?”; ma anche, “quanto è celato e quanto è manifesto?”.
A questo punto, l’interrogazione trova qui la sua chiave di volta. Il contro-movimento che l’arte effettua sulla vita risulta essere un tentativo riuscito di porre l’opera su una zona-limite, tra il visibile e l’invisibile, dove lo sguardo diventa analitica effrazione della realtà.
“Sto guardando in giardino da una finestra del piano terra - scrive Scaccabarozzi ne Lo sguardo attraverso…, testo dalle reminescenze quasi cartesiane - Guardo ancora qua e là, poi rientro con lo sguardo: ho giusto il tempo per rendermi conto di aver osservato la scena attraverso una tendina trasparente […]”.
Dunque, si tratta di educare lo sguardo contro la mistificazione del già visto. Di guardare per poter meglio vedere, e, soprattutto, di far vedere. Ma la funzione educativa, che la pittura svolge per Scaccabarozzi, non si fonda su una razionalità discorsiva, bensì è intrinseca dell’occhio. Essa mette in luce i meccanismi della percezione basati sulla sintesi tra concetto e intuizione sensibile, come insegna la Gestaltpsychologie. Se non ci fosse la pittura, la percezione visiva non sarebbe “vista” in quanto tale. Perché, come scrive Merleau-Ponty, in Il visibile e l’invisibile: “la tentazione di costruire la percezione a partire dal percepito […] è quasi irresistibile”. Il gesto del pittore che converte lo sguardo in un fare, rende operante la visione. Mostra, per prendere a prestito ancora le parole di Ponty, “l’avvolgimento del visibile sul corpo vedente”.
Quando Robert Musil parlava di “disturbo nell’equilibrio della coscienza di realtà”, (secondo il dettato di Arnold Gehlen, in Quadri d’epoca), cioè della possibilità della pittura di rendere visibile una forza intrinseca all’immagine, che rivela un nesso, inesprimibile a parole, fra essa e ciò che in essa appare, si riferiva ad una funzione della pittura che Scaccabarozzi fa propria.
È solo in questo modo, che il pensiero depositato nell’immagine riprodotta può liberarsi, fluire a un punto tale che la coscienza balza all’improvviso su di un altro piano. Quel che allora le appare, è una dimensione assolutamente esteriore e oggettiva che si rivolge però in una “perfezione visibile spiritualmente” (Gehlen); quasi essa trovi, entro quell’effrazione della coscienza di realtà, un punto di irradiamento che la ri-guarda. Siamo qui in presenza, come si diceva all’inizio, di una coscienza processuale, di una soggettività senza garanzie autoevidenti, che non si esprime, che non tira fuori da un’interiorità data, da un soggetto pieno, un “espresso”; ma che costruisce se stessa nell’anonimato del fare, nella dinamica contingente ed empirica del procedimento costruttivo. Per questo, in Scaccabarozzi si può parlare di libertà operativa, di tensione sperimentale. Si pensi, a titolo d’esempio, all’uso dei sacchetti di plastica in Geografie, utilizzati, oltre che per le loro velature e per l’effetto d’impalpabile leggerezza, anche per la semplicità del trasporto e dell’installazione: si piegano, si spediscono e, con due piccoli chiodini, si fissano al muro. E il gioco è fatto, anche il brutto sacchetto di plastica trova il suo posto nella trasfigurazione compiuta dall’arte. La sua funzione comune è cancellata, è diventata immagine della memoria oggettivata, imbevuta di azzurro, di rosa, di viola del Mediterraneo, mentre la forma ha trovato il suo ritmo, il movimento la sua traccia, la forza il suo segno.
Un’ultima considerazione. Se la dimensione concettuale, come abbiamo detto, è essenzialmente legata a quella concreta dell’agire, allora l’opera di Scaccabarozzi si colloca in una zona tensionale, sempre pronta a verifica. Ma non solo. Essa, soprattutto, si carica di tempo. Diventa processo infinito, che non esiste al di fuori del suo farsi: come la danza o, meglio, come il movimento fluttuante del tango. Tango, che negli ultimi anni dell’artista ha occupato uno spazio, una ragion d’essere: con le sue figure, i suoi passi sospesi e rapidi; l’eleganza e, non a caso, la sua processualità. Già, perché il tango è un ballo basato sull’improvvisazione, è un’arte del movimento. Passo dopo passo si procede, con una camminata che deve conquistare naturalezza, combinare forze, equilibrare i corpi. È così che ripresa e variazione ordiscono trame infinite, vortici che con impeto nicciano ritornano su se stessi, in un movimento continuo.
Appuntava Nietzsche prima dei giorni della follia: “ogni arte ha effetto tonico, accresce la forza, accende il piacere”. Ma, ad un patto. Solo quando è contro- movimento; e così è stato per Scaccabarozzi.
Torino, luglio 2014
Gian Alberto Farinella
La mostra, a cura del Prof. Dr. Stephan Berg, vede la partecipazione di Antonio Scaccabarozzi con 7 opere, si aprirà il 20 Novembre e rimarrà aperta sino al 21 Gennaio 2015.
Essenziale con ombre pittoriche, 1990 39,5x69,5
Partecipano alla mostra i seguenti Artisti:
Polly Apfelbaum, Joachim Bandau, Lilah Fowler, Christiane Gruber, Daniel Kiss, Adam Kokesch' Schirin Kretschmann, Timo Kube, Stefan Löffelhardt, Martin Pfeifle, Antonio Scaccabarozzi, David Semper, Michael Toenges' Albert Weis, John Zinsser, et.al
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di Michele Tavola
Non riproduco un’immagine conosciuta nella realtà che ci circonda, ma produco
un’immagine sconosciuta della realtà, dalla quale dare avvio a un’avventura conoscitiva
Antonio Scaccabarozzi
Quanto pesa un’emozione? In grammi, chili o quintali, quanto pesa? Quale bilancia, quale centimetro servono per misurare uno stato d’animo? Le Quantità di Antonio Scaccabarozzi sono il tentativo poetico di tradurre misurazioni scientifiche, inequivocabilmente determinabili ed esprimibili con la sicurezza di un numero, in qualcosa di difficilmente quantificabile come le sensazioni che una persona prova davanti a un’opera d’arte. Che effetto fanno dodici grammi di rosso su tela? Ha senso decidere preventivamente quanto giallo, quanto verde, quanto viola utilizzare per un dipinto? Per aiutarci a dare una risposta l’artista ha definito le Quantità come opere realizzate intorno all’idea che stendere una quantità di colore sia già fare pittura, mentre la serie delle Misurazioni è un lavoro di indagine delle relazioni tra una misura reale di pigmento e la sua decifrazione visiva.
Molti artisti del secolo scorso si sono avventurati alla ricerca della risoluzione della dicotomia ancestrale arte/scienza, giungendo spesso a esiti figurativi che sarebbe eufemistico definire ermetici. Pochi hanno saputo farlo con la leggerezza e la poesia di Antonio Scaccabarozzi, che non si è mai preoccupato di fornire soluzioni definitive alle incognite delle sue equazioni emotive. E non ha esitato a proporre paradossi come le Linee quasi rette, concetto inesistente in geometria che ricorda l’acrobazia verbale (e concettuale) dello statista italiano che teorizzò le convergenze parallele.
Una quantità di colore, una forma geometrica sono quello che basta a Scaccabarozzi per fare pittura. Qualsiasi forma di pittura, senza limitazioni alcune, avventurandosi in generi pittorici che tradizionalmente e storicamente, oltre che per una logica dall’apparente evidenza, sembrano preclusi a chi tenta un’arte non figurativa. Ma se proprio si sente la necessità di una definizione, per Scaccabarozzi si potrebbe avanzare quella di “diversamente realista”. Non ci si stupisca quindi di trovarsi di fronte a prove nell’ambito della ritrattistica e non ci si meravigli nel trovarle molto poco ortodosse. Ma non per questo inefficaci o prive di un profondo portato emotivo. Strettamente personali sono i suoi ritratti, per i quali chiede alla persona da raffigurare di scegliere quali saranno la forma e il colore che la rappresenteranno. In calce a queste opere si trovano frasi del seguente tenore: Alla domanda qual è la figura che preferisci, Paola mi ha risposto: il quadrato. Per il colore ha risposto: blu cobalto scuro. Così ho il piacere di dipingere una quantità di blu cobalto scuro in un quadrato per Paola. Non è come guardarsi allo specchio, ma non c’è da dubitare che la persona effigiata si possa riconoscere nel proprio ritratto dipinto da Scaccabarozzi più che in fotografia.
(per la visione dell'intero catalogo della mostra scaricare il file [PDF] allegato)
L’école du regard (1) di Antonio Scaccabarozzi
Elisabetta Longari
n. rouchota: Cosa diresti a qualcuno per aiutarlo a capire la tua opera?
a. scaccabarozzi: Direi di seguire il procedimento usuale di fronte a un oggetto d’arte. Quello di capire e dare senso a ciò che vediamo, attraverso una lettura attenta, raccogliendo più dati possibili, anche quelli apparentemente banali come: il titolo, la data, le dimensioni, il materiale usato, come è stato usato, perché, ecc. Tutte queste informazioni, che l’opera concede alla lettura, danno già un quadro significativo del pensiero dell’artista, che indica a quali livelli ci vuole portare. (2)
Indizi
1. I titoli
Il titolo, definito da Duchamp “colore mentale”, funziona anche nel lavoro di Scaccabarozzi come indicazione di senso. Vediamo in che modo.
I titoli di Antonio appartengono in genere a due ordini diversi: alcuni sono composti dall’enunciazione di dati oggettivi, altri sono più liberi e poetici, altrimenti venati d’ironia, leggeri. Attingendo alla raccolta che le edizioni Pulcinoelefante (3) hanno di recente pubblicato in un prezioso libretto, qui di seguito si trascrivono quei titoli che sembrano contenere echi particolarmente attivi, che, per diversi motivi, non si spengono:
Una idea sul quadrato [1971]
ore 11,30 GRIGIO AZZURRO [1991]
Misura/Distanza Tempo/ storia di un amore [1982]
E il suo contrario [1973]
Punto di vista variabile [1971]
Interesse a sinistra [1971]
Non prima. Forse dopo. Comunque adesso. Nero [1989]
Me l’ha dato Tommasino [1999]
Merate e non ricordo [2000]
Ventiquattro volte NO [1983]
Centottanta volte NO [1982]
Questo è giallo? [1991]
ROSSO SCURO IN QUESTO MOMENTO [1989]
Essenziale con luci pittoriche [1990]
Questo è rosa? [1991]
Processo di eliminazione del grigio [1976]
Introduzione al vuoto [1978]
Introduzione all’orizzontale annullata [1978]
Provenienza sconosciuta [2001]
Opalescente [2002]
SPECCHIO [1994]
Scaccabarozzi faceva, guardava, assimilava con lentezza l’esito del suo fare, poi - non sempre - “riconosceva”, e quindi, solo allora, nominava.
Occorre dunque seguire il suo esempio, prendendo un certo tempo, utile a far decantare la relazione tra ciò che gli occhi vedono e il suono evocativo dei titoli. Essi sono punte di un iceberg ,come sostiene Natascia, «parte dell’enigma di Antonio».
Lettore, ti si propone un gioco: di ciascun titolo tra quelli indicati più sopra, pare opportuno mettere l’accento su una parola-chiave, che sembra favorire particolarmente l’avvicinamento a qualche aspetto importante degli innumerevoli che con corrono a formare l’opera (quando il titolo è composto soltanto da una parola ci si è astenuti dal trascriverla nuovamente).
Quadrato: il riferimento, attraverso Malevic, Mondrian, Albers e Max Bill, è la geometria apollinea. Dal termine quadrato sembra, intuitivamente, e magari anche erroneamente, derivare la parola quadro. Sarà un formato sempre caro ad Antonio.
Azzurro: è il colore del cielo, della profondità, della lontananza, della trascendenza. Scaccabarozzi l’ha spesso usato.
Misura: il suo lavoro fa sempre i conti con la misura, inizialmente attraverso l’uso delle entità matematiche per verificarne l’applicabilità e l’efficacia, quindi più semplicemente, in un secondo tempo, dimostrandosi lontano da ogni forma di eccesso e dismisura.
Contrario: il gioco del rovescio è una necessità per mettere al vaglio qualsiasi affermazione.
Variabile: perché è la caratteristica più autentica della realtà, tocca familiarizzare.
Interesse: nel caso di Antonio, il suo principale interesse è rivolto a svelare l’essenza della pittura che è eloquente metafora della tensione tra essere e divenire, tra identità e differenza, tra visibile e invisibile.
Forse: un fare che si traduce in pratica costante del dubbio non può che svolgersi sotto il segno di un avverbio che indica l’eventualità.
Tommasino: l’inserimento del nome proprio di un amico sottolinea che gli affetti quotidiani sono anch’essi fili del tessuto della pittura.
Ricordo: in forma consapevole e inconsapevole, con la rêverie e il desiderio, rappresenta le “scorie” che concorrono al processo della visione.
No: l’opposizione necessaria.
?: la centralità dell’interrogazione.
Momento: qui e ora, richiamo alla coscienza della fenomenologia e alla fenomenologia della coscienza.
Luci: senza luci non sapremmo che farcene degli occhi. Ogni colore, si sa, è un diverso comportamento della luce.
Rosa: aurorale è la caratteristica prima del colore rosa, ma facilmente, per estensione, di ogni colore di Antonio in cui sembra sempre prepararsi un’alba.
A questo punto occorre interrompere la catena associativa per chiedere ammenda al lettore: ci si avvede soltanto adesso di essere obbligati, dalla materia stessa, a trasgredire la regola del gioco precedentemente stabilita (una parola per titolo), ma la condizione non risulta particolarmente problematica, poiché la si sente e la si conosce come perfettamente in linea con i procedimenti di Scaccabarozzi. Non riuscendo a scegliere tra processo ed eliminazione, siamo costretti a segnalare entrambi e, per contrastarne l’effetto di ridondanza, si evita di far seguire qualsiasi indicazione di lettura, per riprendere quindi dal punto in cui ci si era interrotti.
Vuoto: il vuoto è assai più attivo del pieno, come sanno gli orientali.
Introduzione: parola vicina ad approssimazione.
Sconosciuta: in questo termine risuona, come il suono del mare nella conchiglia, il richiamo verso la scaturigine di ogni atto creativo.
Ma sai, lettore, che a rileggere un’altra volta da capo l’elenco dei titoli selezionati, sembra che sarebbe stato più significativo invece sottolinearne quelle parole che, nel gioco delle libere associazioni condotto più sopra, in prima battuta sono state escluse?
2. Sperimentazione e metodo
«Sono un creatore di regole. E poi, create queste regole, questi giochi, questi meccanismi, posso giocare io, posso far giocare gli altri».
La precedente affermazione di Alighiero Boetti sembra essere particolarmente calzante soprattutto alla fase iniziale della ricerca di Scaccabarozzi, quando mette alla prova il linguaggio della pittura nelle sue componenti elementari. (4)
Seguire un metodo conduce presto alla scoperta che il miglior metodo è il superamento dello stesso.
La misurabilità, ad esempio, di cui Antonio svela la convenzionalità usando inizialmente anche il medium della fotografia. Le opere note come Misurazioni, il cui titolo per esteso è Ovvietà delle misure-poetica delle distanze, lo tengono occupato dal 1979 al 1982. Derivano da processi di esplorazione sulla misurabilità in generale e, in tutta la loro evidenza introducono, attraverso il paradosso, a una riflessione sulla discrepanza tra conoscenza e percezione, come Trois stoppages etalon di Marcel Duchamp.
«Il risultato pittorico oscura il punto di partenza concettuale [...] Scaccabarozzi indaga le relazioni fra il peso reale del pigmento e la capacità della sua decifrazione visiva», per dirlo con le parole di Wolfgang Vomm (1994). (5)
I metodi d’indagine sono numerosi, si vedano le Iniezioni endotela (1980) e le Immersioni (1982): le prime derivate dall’azione ripetuta di iniettare il colore con una siringa nel tessuto della tela in modo da verificare ogni volta che esso, espandendosi a macchia, occupa la superficie secondo modalità sempre diverse e imprevedibili; le seconde frutto di un “bagno” della tela nel colore. Proprio a proposito delle Immersioni, Antonio stesso diceva: «A questo punto quale misura bisogna dichiarare? Tempo? Volume? Misura lineare?». (6) In effetti, dall’osservazione degli esiti dei suoi esperimenti, consistenti in questo secondo caso nell’imbibire una determinata porzione di tela dalla trama più o meno fitta in un certo quantitativo di colore più o meno liquido, ne risulta con evidenza l’impossibilità di dedurne alcuna regola o legge; da ogni applicazione pratica deriva un diverso risultato che rientra in una casistica potenzialmente infinita.
"Verificare le idee direttamente sulle cose” (7) è la spinta che lo muove e rende immediatamente individuabile la sperimentazione come componente più radicale della sua opera.
Forse proprio in questo inarrestabile slancio a non mai tramutare il fare in formula, a non adagiarsi mai sul già conosciuto, in questa tensione a proseguire un passo dopo l’altro in un percorso interrogativo, a procedere nella sua ricognizione visiva per accertamenti progressivi non necessariamente univoci, in tutto ciò egli dovette sentire di avere assimilato l’esempio inquieto e sublime di Picasso. Ed è probabilmente per motivi analoghi, strettamente connessi al persistente elogio al dubbio che rappresentano ogni pensiero, parola e immagine concepiti da Pier Paolo Pasolini, che il poeta, regista, scrittore, polemista e pittore di Casarsa, entrò nel Gotha dei riferimenti imprescindibili di Scaccabarozzi. E a tale proposito, non bisogna neppure dimenticare l’importanza della “poetica del pastiche”, della mescolanza dei diversi piani: aulico e basso, tragico e comico, ecc..., che l’artista dovette apprezzare nell’opera di Pier Paolo Pasolini.
Scaccabarozzi usa ogni materiale con un tocco unico. Perfino le plastiche, prodotte industrialmente per contenere i rifiuti, sono trattate in modo tale da assumere un comportamento luministico e cromatico cangiante e lieve, pari al settecentesco acquerello, colmo di preziosa grazia evanescente.
Di ogni singolo materiale, dal più nobile per tradizione al più anonimo e “impoetico”, Antonio ha valorizzato le peculiari qualità percettive, costruttive e plastiche.
Il corpo della sua opera non è comunque certamente riducibile alla messa alla prova dei materiali e neppure delle idee sulla pittura.
In realtà, nonostante il suo lavoro si presenti come apparentemente semplice, a volte perfino elementare, sta in equilibrio su un crinale complesso e difficile, in una strana combinazione fra ascetismo e sensualità, a un’altitudine in cui l’aria è particolarmente pura e rarefatta.
3. La luce, il colore
Che la tela sia per Antonio Scaccabarozzi principalmente un filtro per la luce è indiscutibile. Forse in ciò, in questa dedizione alla pittura come luce, è il maggiore legame con Calderara.
Se non bastassero i nostri occhi, vengono palesemente in aiuto storie infantili legate tanto alla paura quanto alla meraviglia della luce.
Natascia racconta nel suo libro più recente, una sorta di ritratto di Antonio, che egli ricordava la mamma Armida, terrorizzata durante i bombardamenti, incollare fogli di carta blu alle finestre per evitare di rendere la propria casa illuminata un bersaglio troppo facile da individuare. (8)
Le sue memorie sono costellate di schermi.
Il passo più sorprendente è quello che fa apparire sotto i nostri occhi l’incanto prodotto dal giallo di Napoli (9) e che somiglia, per effetto di suggestione, alla descrizione che Proust fa, nell’inciso che narra la morte di Bergotte, di quel famoso e misterioso “petit pan de mur jaune” (10) su cui l’occhio si posa, durante la contemplazione della Veduta di Deft di Vermeer: accende una luminosità che immediatamente viene contagiata all’intera superficie del quadro. Elemento di difficile identificazione anche a un’analisi approfondita del dipinto, quel frammento di pittura “alchemica” nelle parole di Proust si rivela un dispositivo poetico che introduce un elogio al “non so che”, all’ineffabile, all’imprecisione, infine al vuoto che arricchisce.
Nelle nuvole che si materializzano miracolosamente, incendiandosi, sotto i nostri occhi durante la lettura del brano di Antonio, prende corpo l’evidenza di un’ immagine che è, a un primo più immediato livello di lettura, rappresentazione del filtro naturale per eccellenza, mentre presto si rivela anche come una convincente e compiuta metafora della pittura tout court. (11)
A rileggere a ritroso la propria vita, i presagi si fanno più chiari; Antonio quando, molti anni dopo i fatti, si racconta all’età di dieci anni intento a spiare lo zio Alessandro mentre dipinge, ammirandone la capacità di catalizzare sulla tela le forze inaudite del colore attraverso una sola pennellata, comunica tanto il potere di seduzione del procedimento quanto il sorgere di una netta decisione interiore: «[...] ero sicuro che la stagione successiva, sarei stato io il pittore».
Anche il ricordo del nonno a tavola, con la bottiglia di vino che produce un riflesso di luce colorata che ammalia il piccolo Scaccabarozzi, è un ricordo precoce da giovane pittore “in erba”: «Più in basso sulla tovaglia bianca, la proiezione dell’acquerello pulsante mi impediva di distogliere lo sguardo dalla sua trasparenza ». La consapevolezza sopraggiunta con il tempo gli farà dire nel corso del medesimo testo: «Alcuni mesi fa quando la logica interna al mio lavoro, suggerì l’idea dei primi acquerelli in assoluto di tutta l’attività, mi ricordai di questa esperienza. Con piacere mi trovai a pensare che gli acquerelli di oggi, li abbiamo iniziati insieme quel pomeriggio, anche se per tanti anni sono rimasti nel mondo segreto del bicchiere di mio nonno Pinino». (12)
La luce del pigmento, imbottigliata in soluzione acquosa nel vetro trasparente, è certamente un omaggio al nonno, ma ancora di più sembra volere onorare la magia cromatica di una presenza liquida, quasi impalpabile agli occhi eppure tanto potente e incontrovertibile, che svolge la medesima fiabesca funzione del Genio rinchiuso nella lampada di Aladino. Quando si stapperà la bottiglia, quella luce bagnerà la carta e, allagandola, paradossalmente ne potenzierà il chiarore. Negli acquerelli di Antonio la carta o la tela a volte sembrano sparire, mentre il colore risplende libero come un sole segreto, una luna potente e ritrosa, un cielo vasto e altissimo. A volte invece i dipinti diventano oscuri e lucenti come corteccia d’albero bagnato.
Acquerelli, Velature, fogli e tele che sembrano spingersi al limite della smaterializzazione per spalancarsi alla luce. L’autore stesso si interroga sulla loro natura, a volte così tenacemente da conservarne la domanda perfino nel titolo: Ma questo è giallo? Ma questo è rosa? In realtà sono sospetti cromatici quelli che nascono come presagi nei nostri occhi. Puro, tenue e necessario, quasi allo stato nascente è il colore, presente ma sempre più voltile nel suo cammino verso la luce. Forse è questo il terreno in cui Scaccabarozzi incontra anche Corot, autore probabilmente guardato in sordina, oppure inconsapevolmente, ed è certo dove il richiamo concettuale a Klein trova più fondatamente riscontro.
E sempre in un colore, certamente più inventato che visto, è identificabile la sua familiarità con altre più significative esperienze: per quel rilasciare lento della luce che le stesure di Rothko, anche le più oscure, sprigionano e per quel “sentimento luminoso dello spazio” che Claudio Cerritelli evidenzia nella pittura di Calderara come uno dei motori più profondi. (13)
Colori labili, fuggitivi eppure tenaci nella loro irriducibile singolarità, spesso equivoca. Il loro fascino, ambiguo e sottile, è particolarmente conturbante. A volte un colore richiede diverso tempo prima di rendersi accessibile, visibile, e, per sua natura, tende a sottrarsi a ogni definizione.
Un lavoro che trova di volta in volta il suo alfabeto primario e agisce come pulizia dello sguardo dell’osservatore, proponendogli in modo discreto ma perentorio un esercizio di “affinamento” della percezione. Tanto più il diluvio d’immagini della società di massa ottunde i sensi fino ad intasarli, tanto più la sete di vedere davvero qualcosa sembra farsi inestinguibile. Scaccabarozzi risponde a quella sete con oceani, limpidi di luce smagliante e velati di ombre soffuse, aprendo “strappi” immensi nello scenario quotidiano.
La sua pittura fa schiudere negli occhi pori capaci di assorbire consistenze inusuali, fa spuntare papille capaci di gustare sottili scarti sconosciuti. Da qualche sporadico tentativo iniziale di attivare la superficie attraverso l’immissione della possibilità di un movimento reale (si veda ad esempio Quadratomobile Diagonale, 1969), Scaccabarozzi passa presto alla sfida di definire lo spazio e renderlo pulsante tramite un intervento che crea ritmo, al principio mediante elementi tridimensionali (“Fustellati”) quindi bidimensionali (“Puntini”, ovvero Prevalenze), affidandosi sempre maggiormente al potere della pittura, lasciandosi progressivamente alle spalle congegni e rilievi. Le superfici diventano membrane sempre più aeree e sensibili, finché non irrompono le “Plastiche”, porzioni di colore elettromagnetiche e mobili, portatrici di un quid aleatorio, leggero e felice. Capaci di rabbrividire come pelle.
«Venivano applicate al muro nella parte superiore, così da sollevarsi liberamente e ricadere con la leggerezza del loro corpo, al primo movimento d’aria». (14)
Ma prima di affrontare i polietileni, l’apice dell’opera di Scaccabarozzi, conviene fare alcune considerazioni preliminari necessarie
4.
4.1 Essenziali
«Sono spatolate di colore misto a colla, con uno scheletro in lana di vetro fissato dietro che serve a dar loro la stabilità strutturale necessaria. Queste opere non poggiano su una base, si posizionano direttamente a parete, mediante gancetti che Antonio fissa con estrema cautela sul retro». (15)
Gli Essenziali sono costituiti da un insieme, un conglomerato di gesti solidificati in andamenti di colore monocromo che migrano liberi nello spazio dell’ambiente e che gli impongono una vistosa accelerazione.
Rappresentano il più diretto antecedente delle “Plastiche”, che nel percorso di Scaccabarozzi assolvono la stessa funzione dei Papier découpé nell’opera di Matisse.
4.2 Plastiche: la pittura come soglia
La curiosità di Scaccabarozzi dovette trarre spunto dagli esempi di Manzoni e Klein in fatto di disinvoltura nei confronti dell’uso dei materiali ”extrartistici”, almeno tanto quanto ne dovette derivare indicazioni verso la sensibilità per il monocromo come luogo esemplare della visione. «Quando ho scoperto questo materiale, il polietilene, ho subito intuito che possedeva numerose caratteristiche che corrispondevano alle mie aspirazioni di lavorare sulla trasparenza, sulla leggerezza, duttilità, instabilità ecc. Infatti il materiale si rivelò perfetto ». (16)
Il foglio di polietilene risponde perfettamente all’esigenza di una pittura che si vuole semplice, elementare e variabile; il suo uso rappresenta la più compiuta sintesi tra gesto, forma e colore. Inoltre questo materiale, che introduce un alto quoziente di mobilità, dà corpo esemplare al concetto di pittura come soglia, membrana sensibile tra visibile e invisibile, di cui l’opera di Scaccabarozzi nella sua totalità si fa “figura” emblematica.
Le Plastiche funzionano come carta moschicida per gli occhi.
Le Banchise e soprattutto le Ekleipsis, la cui mobilità, altrettanto ricercata quanto imprevista, risulta essere il dato più immediatamente coinvolgente, si spingono ai limiti dell’orizzonte conosciuto; come Herzog con la sua cinepresa, Antonio concentra lo sguardo su fenomeni dalla consistenza dubbia, come chiarori opachi di profondità insondabile, quasi punte di iceberg, lambendo così le soglie della visione per sondarne l’ignoto spazio profondo.
Questi due cicli, Banchise e Ekleipsis, appartengono per certi aspetti alla medesima genealogia di alcuni dipinti di Gerard Richter del 2009: superfici lattiginose, occupate da aloni biancastri, che occultano e al tempo stesso lasciano qua e là intuire i colori sottostanti a stento visibili. La pittura in questi casi coincide con la frapposizione di uno schermo che sembra attutire il senso della vista, come se una specie di membrana fosse cresciuta improvvisamente sopra le pupille, un glaucoma opaco, una placenta madreperlacea che rende “altra” la percezione in modo radicale. Lambendo la soglia della visione fino quasi al suo azzeramento, corteggiandone l’estinzione, la pittura insegna come si vede, instilla la consapevolezza del vedere.
4.3 Velature come doubleure delle “Plastiche”
Quando si dedicò alle Velature mi disse: «Ho bisogno di sentirmi pittore». (17)
Il testo che Antonio scrive nel 2005 per spiegarne la genesi e l’iter processuale contiene sul finale una considerazione interessante che vale la pena di sottolineare, perché ne svela la componente metafisica dello sguardo: «Nel corso del procedimento se tutto va per il meglio, ad un certo punto sopraggiunge un particolare stato emozionale ad indicare il compimento, facendo sentire chiaramente di aver raggiunto il senso dell’unione di questi due colori, che si fondono in una nuova unità attraverso la validità del processo. Questo risultato a volte si ottiene anche dopo una sola velatura». (18)
La creazione di un’entità cromatica nuova, inedita, trova nei sensi una soddisfazione estetica ed estatica che coinvolge la sfera emozionale. È l’occhio interiore, sensitivo ed emotivo, che dice alla mano quando fermarsi.
5. La natura insegna a vedere attraverso
La coscienza insegna a vedere il vedere «Sto guardando in giardino da una finestra del pianoterra. [...] Guardo ancora qua e là, poi rientro con lo sguardo: ho giusto il tempo per rendermi conto di aver osservato la scena attraverso una tendina trasparente, il vetro della finestra, la zanzariera, la ringhiera di ferro battuto, senza accorgermi della loro presenza. Ora quegli oggetti frapposti, che non avevo notato, acquistano enorme importanza nella ripartizione dello spazio in distanza. Generano numerose connessioni, rimandano indietro la loro immagine e nello stesso tempo lasciano passare lo sguardo». (19)
La dialettica tra occlusione e sfondamento dello sguardo è qualcosa su cui Scaccabarozzi gioca fin dal principio, già nei “Fustellati” e nei cosiddetti “Puntini”.
La visione deriva da una sommatoria di fattori che concorrono a creare un meccanismo particolarmente complesso. Scaccabarozzi analizza, sposta, smonta e complica le soglie del visibile. In questa prassi il ragionamento è parte connaturata all’intuizione poetica, una sorta di corollario. Antonio infatti non segue un piano preordinato mentre asseconda alcune delle aperture che gli si presentano come possibili, proposte dalle forze dell’immanenza.
5.1 Ricerca di “collaborazione”
Che l’osservatore è elemento centrale nella creazione dell’opera è ormai cosa universalmente riconosciuta, soprattutto da quando Duchamp ne ha formulato l’affermazione in modo lapidario: «è lo spettatore che fa il quadro». Da un passo di un’intervista raccolta da Luigi Erba nel 1981 veniamo a sapere che in quel momento Antonio stava lavorando a una serie di opere intitolate Strettamente personale, che nascevano direttamente dai “dettami” del cosiddetto “fruitore”: «eseguo infatti un lavoro a partire dalle risposte a due domande che sottopongo alla persona, chiedo cioè quali sono il colore e la forma geometrica che preferisce e in base a queste elaboro un manufatto che è quasi sempre una dichiarazione di superficie o di volume [...]». (20)
Questa scelta, che ricerca l’intervento altrui per stabilire alcuni dati fondamentali su cui basare la propria operazione pittorica, rientra a pieno diritto tra le strategie di “spersonalizzazione” messe in atto, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, da diversi artisti tra cui bisogna ricordare Boetti, volte alla liberazione dalle angustie della dimensione individuale, dai suoi automatismi culturali ed estetici, introdotte al momento soprattutto per prendere distanza dai retaggi espressionistici dell’ “accademia” informale, per fuggire il compiacimento narcisistico dello psichismo quanto il virtuosismo della manualità e/o della materia.
Anche le Immersioni (1980) e le Iniezioni endotela (1982), che nascono principalmente dall’intenzione di far parlare i materiali per quello che sono, trovano la loro più autentica ragion d’essere nell’effetto/sorpresa legato al comportamento, imprevedibile e sempre diverso, delle forze in campo.
5.2 Il luogo dell’opera
«L’idea è di porre l’opera come zona-limite di forze contrapposte. Dove la tensione che si instaura fra la configurazione dell’oggetto e lo sguardo che l’oltrepassa, carichi questa idea di vitalità». (21)
Appare evidente che l’opera si situa in una zona carica di tensioni, puria, formata in uguale misura tanto dalle intenzioni e dai gesti dell’autore quanto dall’interpretazione, anche di natura proiettiva, dell’osservatore.
La lezione di Fontana è stata probabilmente assimilata da Antonio suo malgrado, senza che venisse menzionata direttamente nelle testimonianze al momento accessibili; dovette essere un fatto perfettamente naturale, così come respirare, tanto è vero che ciò accadde a quasi tutti gli artisti formatisi a Milano negli anni Cinquanta. Sembra evidente in alcune “Plastiche”, soprattutto le prime che si avvalgono di un foglio unico - alle sovrapposizioni arriverà in un secondo momento-; esse hanno per lo più formato quadrato e funzionano come cornici, leggeri nastri che delimitano il “vuoto”, l’assenza, la neutralità rappresentata dalla parete monocroma, generalmente bianca, su cui sono applicate. Queste “cornici”, che a volte riquadrano porzioni di vuoto considerevoli, altre volte invece si schiudono in fessure sottili come la linea di luce, o di buio, che filtra, come presenza “altra”, attraverso una tenda tirata o una porta chiusa, funzionano da sottolineatura della concentrazione e dell’attenzione necessaria per la lettura di un qualsiasi fenomeno visivo. Il bianco della porzione di parete esterna a esse è diverso dal bianco “ritagliato” al loro interno. Solamente lo scarto, la differenza offrono la possibilità reale di conoscere l’identità.
6. La leggerezza
Scrive Natascia nel suo ultimo libro talmente ricco di spunti da far sì che non si possa resistere alla tentazione di saccheggiarlo:
«Quando un soffio di vento muove le foglie e le fà fremere, gli insegna a star leggero con la mano con le forme coi colori sulla tela e a dare spazio, peso e significato al vuoto». (22)
La natura, con i suoi cicli, insegna anche che tutto è mutevole e nulla resta uguale. Neppure l’arte può sottrarsi a questa logica. Il controllo è un’illusione.
Antonio lo sa fin dagli anni Settanta, gli è chiaro quasi da subito, con certezza dai tempi dell’ avventura dell’Interrogazione sistematica (1977), insieme a Nato Frascà e Paolo Minoli, con il supporto del pensiero critico di Alberto Veca e Paola Mola. (23)
In tempi più recenti, la scelta dei fogli di polietilene porta con sé l’elezione della leggerezza, della fragilità e della precarietà come valori fondativi, di cui solo il primo è stato indicato da Calvino (24) come parte dell’attrezzatura necessaria da importare nel terzo millennio. Le indicazioni di Antonio, più attuali rispetto a quelle dello scrittore, si rivelano particolarmente utili per orientarsi nel mondo “usa e getta” che Guido Viale (25) ha disegnato in modo particolarmente nitido sotto i nostri occhi.
Ogni tappa del percorso di Scaccabarozzi, ogni opera, obbliga a fare il punto esatto in cui ci si trova: strappa l’osservatore al brusio dell’abitudine, per consegnarlo a un luogo di realtà “altra” capace di produrre, come uno specchio vuoto, pura riflessione; chi guarda viene a trovarsi in un “campo” connotato da un silenzio che ha lo splendore di certe mattine d’estate, chiarissime, combinato assieme allo spleen del crepuscolo.
Questo “quasi nulla” che occupa le superfici è capace di sprigionare, di portare con sé il presagio di una totalità complessa e vertiginosa. Un senso di sospensione e di attesa completamente gravido ne è il retrogusto più netto. Come ha scritto Luigi Erba, «[...] Vedere è come essere risucchiati da un pensiero che l’artista non ha ancora espresso. Ciò che deve accadere è ancora più assoluto. È il senso totalizzante dell’attesa...». (26)
L’osservatore dei dipinti di Scaccabarozzi si trova implicato nel vivo del processo stesso di formazione del vedere. A tal proposito è opportuno citare l’installazione realizzata nel 2004 a Edimburgo, (27) in cui un foglio di polietilene trasparente teso, come un diaframma, a tagliare in due porzioni la stanza, funziona come una soglia che crea uno scarto nella modalità di percepire, come una lente che, alterando la visione, implica perentoriamente la consapevolezza degli occhi che la attraversano.
Certo, ritroviamo anche in Burri l’uso a volte di un “foglio” di plastica come schermo tra l’osservatore e lo spazio dell’ambiente, ma sempre in modo parziale e soprattutto per esaltarne i valori espressivi e drammatici, molto diversamente da Scaccabarozzi, attento invece esclusivamente ai valori peculiari, elementari e strutturanti.
7. L’ambiente come pittura
La sua pittura mostra tanto una precisa autonomia quanto una vocazione ambientale.
L’interesse per il coinvolgimento dell’ambiente, presente in nuce fin dai tempi dello “spazio totale” dei “Fustellati” e dei reticoli geometrici creati dalle Prevalenze, è testimoniato apertamente dalla serie delle Barriere, che nella forma richiamano tanto lo steccato quanto il porticato del tempio greco. (28) Esse vengono posizionate nello spazio in modo da funzionare come elementi che creano una vistosa alternanza, dal ritmo regolare: lo sguardo è a tratti libero di correre fino in fondo allo spazio percorribile per raggiungere il punto di saldatura tra il pavimento e le pareti, altrimenti si trova respinto dalla rete di rimandi luminosi e invischiato nelle trasparenze, profondamente condizionato dagli effetti prodotti dalla presenza della membrana di plastica.
Una installazione in particolare sembra essere il frutto di una specie di gioco del “rovescio” praticato nei confronti dell’intervento, spoglio e radicale, realizzato a Edimburgo e descritto più sopra: si tratta dell’installazione nella Sala Civica Comunale di Merate nel 1994, in cui l’attivazione dello spazio dato viene ottenuta tramite la disseminazione fitta e regolare di un pattern di Essenziali, che riprende esattamente nella forma, nelle dimensioni e nel colore i riquadri di cui è costituita la decorazione del pavimento. L’effetto di moltiplicazione, raggiunto con gli Essenziali che contrastano particolarmente con lo sfondo delle pareti candide su cui si stagliano, immette lo spettatore in una scacchiera tridimensionale, resa improvvisamente abitabile. (29)
8. A proposito dello stile
n. rouchota: «La tua opera è apparentemente astratta, nel senso che non riproduce un’immagine già conosciuta. Tu come ti definisci?»
a. scaccabarozzi: «Proprio per questo io mi definirei piuttosto un realista, dato che non riproduco un’immagine conosciuta nella realtà che ci circonda, ma produco un’immagine sconosciuta della realtà, dalla quale dare avvio a un’avventura conoscitiva ». (30)
Perfino Bacon rivendicava per sé la qualifica di “realista”. Ogni pittore dipinge ciò ch Scaccabarozzi è affacciato a una terrazza celeste.
Sul finale del suo ultimo già citato libro dedicato ad Antonio, Natascia annota: «Le ultime parole che ho trovato scritte da lui su un taccuino che gli avevo regalato, sono Realismo? Pensato?». (31) Ancora e sempre il suo pensiero assume forme interrogative.
Nel caso di Scaccabarozzi lo stile non è certamente questione eminentemente tecnica e neppure linguistica, ma coincide con un discorso legato alla qualità e alla pulizia della visione. Sotto questo aspetto forse il più vicino è Morellet?
9. Procedere per cicli
Ogni serie, generata da un nuovo dialogo con i materiali e i metodi, costituisce un tassello di un percorso esemplare di sperimentazione e ricerca sui modi di attivazione della superficie.
Così come Burri si dedica a un confronto variato ed esclusivo con l’espressività della materia, Antonio indaga sottilmente le possibilità strutturali della visione. I suoi cicli, come quelli di Monet e di tutti coloro che non hanno alternativa alla serie, una volta evidenziati, stabiliti e posti in azione gli elementi e i valori di base, sembrano saggiare, attraverso la loro declinazione, l’inesauribile diversità della pittura.
Ogni quadro è una tappa provvisoria di un’inchiesta profonda e radicale, come ha ben detto Alberto Veca (32), un frammento strappato all’ininterrotto flusso esplorativo e cognitivo.
L’idea della serie, del ciclo, contiene naturalmente l’idea della “ripresa” e della “variazione”, esattamente come un fraseggio nella musica jazz, genere che Antonio apprezzava forse più di ogni altro.
10. Il tempo
Nell’archivio del fotografo Luigi Erba è stato rinvenuto uno scatto datato 1980 che raffigura Antonio Scaccabarozzi ripreso di schiena, col volto riflesso in uno specchio appoggiato sopra un cavalletto e dal quale pende un orologio da taschino (la classica “cipolla”); il titolo è Autoritratto di tre minuti, una breve performance, segnale dell’intenzione di inglobare nella pittura la complessità della vita, l’impermanenza evidenziata dal fluire del teman po che sembra esserne il principale responsabile. A confermare la sentita necessità d’inglobare il tempo, la presenza di un’opera/ specchio, appesa in una stanza della casa-studio di Montevecchia: è una spoglia porzione di superficie specchiante in cui, naturalmente, si riflette chiunque vi si sporga. Il suo titolo, Misura/ Distanza Tempo/Ironia (1981), è composto da un insieme di quattro termini di cui ciascuno denota un aspetto fondamentale del fare di Scaccabarozzi. Soprattutto l’ironia che, in quanto distacco della passione, sembra includere automaticamente anche gli altri.
Il lavoro per serie di Antonio ha indicato la centralità del tempo, evidenziato l’importanza dell’intervallo, del passaggio da un quadro all’altro, da un frammento all’altro dell’ inesauribile visione del mondo, sottolineato la funzione del margine e, per estensione, dell’angolo come luogo di tensione al cambiamento.
Alcune opere rivelano una particolare attenzione per l’angolo. La più emblematica è certamente l’installazione dal titolo, eloquente e tautologico, Le Coin (33) in cui la pittura, eseguita direttamente sulle pareti, ne occupava esclusivamente il punto di congiunzione, ovvero l’angolo. Anche diversi Essenziali sfruttavano l’angolo degli ambienti in cui venivano posizionati. L’interesse dimostrato verso “il salto”, lo snodo in cui si attua il cambiamento d’orientamento dello spazio, che generalmente viene ignorato e acquisito come una sorta di margine neutro da parte dei pittori tradizionali che si limitano a occupare le pareti rettilinee, ribadisce che Antonio non vive il luogo della pittura come una superficie rassicurante su cui ri-produrre, ovvero produrre ancora una volta, gesti e tantomeno immagini. Alle certezze del già conosciuto ha evidentemente sempre, sistematicamente, preferito la ricerca.
L’inclinazione a considerare l’angolo, il margine del campo visivo, i limiti della visione, rientra nella medesima logica dell’azione turbativa svolta da alcuni colori che, con il loro corpo impalpabile e sfuggente, mettono in discussione le soglie del visibile.
La pittura è prima di tutto attivazione di uno spazio. Scaccabarozzi sceglie di dedicarsi, coerentemente e fedelmente, alle alternative che la superficie e il colore sembrano avere, una volta escluse le formule già collaudate e i riferimenti estranei al linguaggio.
11. Gli autori più amati
Preziose le note che Natascia compone restituendoci alcuni contorni di Antonio che altrimenti andrebbero perduti. Accenna agli autori amati: Nietzsche, certamente anche per il fondamentale concetto dell’eterno ritorno, e Proust, sicuramente per il suo essere, o voler essere, un Vermeer che usa le parole al posto dei colori. Una posizione speciale occupa Leonardo da Vinci, campione inarrivabile della curiosità che muove la ricerca scientifica e poetica, e che, nello specifico della pittura, restituisce la sostanza atmosferica, carica di aria e lontananza, attraverso lo sfumato.
Non è forse pulviscolare anche ogni colore di Antonio? Leonardo si dimostra inoltre autore di una modernità straordinaria per la sua famosa affermazione, tante volte ripresa dagli artisti concettuali: «la Pittura è cosa mentale». I pensieri più compiuti di Antonio sono le sue opere.
«Ogni tanto bisogna tornare alla Yourcenar» secondo la testimonianza di Natascia questa è una delle sue frasi preferite. Ma che cosa avrà voluto dire esattamente? Sarebbe importante indovinarne il senso...
Sentenza (34)
Ordire trame visive, mettere alla prova il funzionamento percettivo che, com’è noto, non è riducibile alla meccanica fisiologica dell’occhio, ma implica diverse zone del sentire, regioni culturali e ragioni del cuore. Questo è il compito svolto costantemente da Antonio Scaccabarozzi nel corso della sua opera, vasta e variabile come lo sguardo.
Note
1 L’Ècole du regard [trad. it. La scuola dello sguardo] è un modo alternativo per definire il movimento letterario francese altrimenti noto come Nouveau Roman, di cui il principale esponente è Alain Robbe Grillet. Al centro della narrazione vengono a trovarsi gli oggetti con la loro presenza incontrovertibile eppure inesauribile, nella loro muta “cosalità”, in un processo di scrittura che si posiziona lontano da ogni psicologismo dei personaggi e/o del narratore. Questa dicitura, Ècole du regard, viene applicata alla ricerca di Scaccabarozzi per sottolinearne almeno per due aspetti: l’azione di pulizia e la funzione educativa che questa svolge nei confronti dello sguardo dell’osservatore, attraverso la centralità della presenza corporea dell’oggetto pittorico nella sua pregnanza.
2 Intervista del 2006 pubblicata in Antonio Scaccabarozzi. Talento & rigore, Casatenovo, Villa d’Adda Mariani, dal 9 al 13 aprile 2009, p. 23.
3 Antonio Scaccabarozzi, Titoli. 4 velature di terra verde, Osnago, 2012.
4 Paola Mola in uno scritto del 1977 individua con chiarezza la posizione culturale espressa da tali operazioni: «Una sorta di analisi grammaticale del linguaggio figurale: forme/colori/volumi fissati in una successione razionale di rapporti elementari, facilmente leggibili, che vuole essere una dimostrazione delle loro molteplici potenzialità, e soprattutto della loro relatività. L’oggetto è dunque la relatività del dato, quale emerge appunto da un dubbio, un’interrogazione sistematica, [...] atteggiamento operativo che implica la negazione di qualsiasi schema a priori come il rifiuto di qualunque metodologia che non sia la critica sistematica al metodo stesso di partenza, una volta assunti come unico punto d’avvio accettabile solo fenomeni scientificamente verificabili [...]. Arte che è ricerca, senza divine certezze e senza miti, sostanzialmente problematica, che traduce il proprio rifiuto di avellare posizioni mentali acquisite, nel rigetto, a livello operativo, di forme e colori in qualche modo già significanti, di qualunque siombolismo, metafora o referenza esterna» [Paola Mola, L’interrogazione sistematica, catalogo della mostra, Galleria Lorenzelli, Bergamo, maggio-giugno 1977; Studio Rotelli, Finale Ligure Borgo (SV), dal 9/7/1977.
5 Wolfgang Vomm, Antonio Scaccabarozzi. Eine Werkübersicht [ Il suo lavoro], in Antonio Scaccabarozzi, catalogo della mostra, Städtische Galerie, Villa Zanders, Bergisch Gladbach, dal 9 gennaio al 13 aprile 1994. Notes 6 Antonio Scaccabarozzi in Luigi Erba, Due “personali” in Germania del meratese Scaccabarozzi, in “Giornale di Lecco”, 29 agosto 1983, p. 3.
7 Ibidem.
8 Natascia Rouchota, L’emozione del metodo, Crocetti, Milano 2012, in corso dipubblicazione.
9 Antonio Scaccabarozzi, Giallo di Napoli, 2006, in “Nuova Mèta”, n. 31, Neos, Torino, 2010, pp.64-67.
10 Marcel Proust [1912], trad. it., Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino 1964, vol. III, p.174.
11 Si veda a tale proposito Hubert Damisch [1972], trad. it., Teoria della nuvola. Per una storia della pittura, Costa & Nolan, Genova 1984.
12 Antonio Scaccabarozzi, 1983.
13 Claudio Cerritelli, Visibili pensieri di luce, in Antonio Calderara, Fondazione Zappettini, Milano, dal 28 settembre al 25 novembre 2011, p.3.
14 Antonio Scaccabarozzi, Lo sguardo attraverso..., Atene, luglio 1995- Montevecchia 2000, in Idem, p. 29.
15 Natascia Rouchota, L’emozione..., cit.
16 Antonio Scaccabarozzi, in Idem, p. 39.
17 Ibidem.
18 Antonio Scaccabarozzi, Velature, 2005 in Antonio Scaccabarozzi. Talento... cit, p.47.
19 Ibidem.
20 Antonio Scaccabarozzi in Luigi Erba, Antonio Scaccabarozzi «strettamente personale», in “più idee”, Bergamo, aprile 1981, p. 55.
21 Antonio Scaccabarozzi, Lo sguardo attraverso..., cit.
22 Natascia Rouchota, L’emozione..., cit.
23 L’interrogazione sistematica era il titolo per una serie di incontri tenuti in più sedi: la galleria Lorenzelli a Bergamo, lo studio di Paolo Minoli a Cantù, lo studio Rotelli a Finale Ligure.
24 Italo Cavino, Lezioni americane, Einaudi, Torino 1988.
25 Guido Viale, Un mondo usa e getta,
26 Luigi Erba, Ragione-emozione, in Lecco Arte Festival, dal 16 maggio al 19 luglio 1998, p. 38.
27 Installazione alla Galleria Sleeper di Edimburgo, riprodotta in Antonio Scaccabarozzi, Antologica 1965-2008, P420, Bologna, dal 6 novembre all’8 gennaio 2011, p.20.
28 I templi classici furono ripetutamente meta dei viaggi di Antonio e Natascia, di nazionalità greca. In ogni modo, al di là delle contingenze biografiche, come scriveva Henry Miller, «La Grecia è ciò che ognuno sa, anche se in absentia, anche se è un bambino, o un idiota o un non ancora-nato». Si veda in particolare l’opera Senza titolo, 1998, 500x100 cm, la cui installazione nel 1999 presso la Villa d’Adda Mariani, Casatenovo, è riprodotta in Antonio Scaccabarozzi, Antologica 1965- 2008, cit., p.17.
29 Dell’opera, dal titolo 25 Riferimenti, si veda la riproduzione in Antonio Scaccabarozzi, Antologica 1965-2008, cit., p.16.
30 Intervista del 2006 pubblicata in Antonio Scaccabarozzi. Talento... cit, p. 11.
31 Natascia Rouchota, L’emozione..., cit.
32 Alberto Veca, Lettura a distanza, Milano, gennaio 2009, in Idem, p. 9.
33 Opera realizzata al Museè Cantonal des Beaux Arts, Sion, CH, nel 1988, riprodotta in Antonio Scaccabarozzi, Antologica 1965-2008, P420, Bologna, dal 6 novembre all’8 gennaio 2011, p.14.
34 Termine di cui qui si vuole ricordare il significato etimologico legato al SENTIRE.
"La scelta del punto come elemento poco esteso, soddisfa alla necessità di situarlo isolato nel campo. La sua forma circolare gli conferisce una natura anonima, neutra, aperta in tutte le direzioni alla relazione con altri punti che denotano il valore strutturale spazio-distanza che li tiene in tensione.
Il tipo di organizzazione (schema), determina: le distanze, l'ordine di disposizione dei singoli punti, dei gruppi, le grandezze, i colori.
I modi organizzativi di questi lavori, son diretti a distinguere le verticali dalle orizzontali con i punti che le sottintendono. Uno di questi modi, è la distinzione operata sulle diverse grandezze nel caso del mono-colore, ma solitamente preferisco diminuire il colore stesso a toni e semitoni, da un massimo a un minimo aggiungendo il bianco.
[ ... ] Il carattere di segnale che il punto ha nel mio lavoro, lo rivela come entità inscindibile dal colore e viene utilizzato senza presupposti soggettivi, simbolici o allusivo-naturalisti- ci, né in fondo oggettivi riferiti a condizioni psicologiche o cromatologiche.
Viene utilizzato per quello che è, cioè, materia prima grezza.
[ ... ] L'impiego di tali mezzi, mi pare si adatti alla necessità di avere il controllo diretto sull'operazione, che da attività mentale diviene attività fisica, poi risultato poetico."
Antonio Scaccabarozzi, da Colore, Premio Silvestro Lega, 1976 e dal testo a catalogo per la mostra presso Galleria Santelmo, Salò, 1972.
galleria della cappelletta - via trento - 22058 osnago (CO)
Indicazioni metodologiche
1. L'oggetto, che viene allegato al catalogo, si presta ad offrire non tanto una immagine casuale di un'opera finita, quanto una campionatura del processo operativo globale, ed intende realizzare pertanto una, per quanto limitata, indicazione didattica.
L'intervento del fruitore, il quale completa l'oggetto secondo le istruzioni allegate, non è stato richiesto. per una finalità Iudica o di attivazione creativa; la ricostruzione, al contrario, deve determinare un dato di coscienza che permetta di giungere, con questi mezzi, a quel livello sufficiente e necessario per una comprensione oggettiva della tipologia costruttiva e delle leggi fenomeni che presiedono all'opera (il punto focale di questa operazione consiste nella accettazione della coincidenza del linguaggio con la sua stessa funzione).
In ognuno degli operatori, di cui ci occupiamo, la proposta trova una disponibilità non casuale.
Superato il momento storico della programmazione, come atto ideologico e politico, del fare arte, e oltrepassato l'invischiamento nel procedimento concettuale (inteso come atto fine a se stesso ed in tale maniera resosi categoriale) si prevede che si possa operare concordemente a restituire un'idea metodologica che tenda chiarificare il processo operativo globale dell'azione artistica.
2. Recuperare il significato umano che sta dietro all'opera e fare uscire dall'anonimato di una «maggioranza» silenziosa l'artista ricercatore, dovrebbe essere uno degli obiettivi di base.
Si tenta per ciò di conseguire questo scopo non per mezzo di un intervento esterno ed estraneo alla costruzione della personale messa in forma del mondo, ma mediante un mezzo di collaborazione, che trova il suo punto di partenza in una nuova e comune co- scienza metodologica.
A questa determinazione si è giunti per molte vie. Possiamo verificarne una. Partendo da una critica a quelle concezioni psicologiche che intendono l'attività conoscitiva come una graduale presa di possesso del mondo del circostante, il quale in questo rapporto fungerebbe come elemento statico, si viene ipotizzando una tesi per la quale non ci s'incontra mai con gli oggetti ma con la propria stessa attività.
I,'arte «presa di coscienza» non rappresenterebbe che un «comportamento» come un altro in riferimento alla possibilità di schematizzare il rapporto tra se, gli altri e le cose: una nuova prassi conoscitiva non deve perciò avere come obiettivo una realtà esterna, ma se stessa.
Dal «discorso sul metodo» non si può pervenire quindi (anche attraverso l'analisi dei processi storici della filosofia l-e della epistemologia) che ad un «metodo del discorso»: perché il mondo stesso è unb «metodologia generale» nella quale le «metodologie particolari» gestiscon~ gangli di relazioni antropologiche.
E. L. Francalanci
Tipificazione e metodo do procedimento
1. Supporto rigido.
legno compensato:
Strati sottilissimi di legni diversi sovrapposti con le fibre incrociate, incollati e compressi in modo da offrire alta resistenza rispetto allo-spessore e scarsa sensibilità alle variazioni termiche.
Questo materiale verrà trattato a rasatura e idropittura nella stessa misura che sarà trattato il supporto elastico, per dare un aspet to materico simile alle parti visibili sotto gli elementi sollevati. Quan::io i due supporti saranno incollati fra di loro, (salvo gli elementi) faranno corpo unico ed eviteranno l'idea di buco.
2. fustella a mano:
Utensile in acciaio a forma conica, con base circolare di vario diametro e affilata per il taglio netto; impugnatura proporzionata alla circonferenza di base e a testa piatta.
questo utensile verrà modificato; la circonferenza di taglio sarà interrotta in un punto X mediante limatura. Il pezzo mancante, sempre in proporzione alla misura del diametro, sarà il punto di attacco degli elementi sollevati.
3. martello a mano:
Utensile che per la forza viva impressagli esercita col proprio peso un urto o una pressione sul pezzo da lavorare o su altro utensile. E' costituito da una parte in ferro, più o meno massiccia, termina da un lato con una superficie piana piuttosto larga (testa), mentre dall'altro lato si affina (penna): al mezzo un foro rettangolare (occhio) in cui si innesta il manico.
4. supporto elastico.
tela:
una delle armature tessili fondamentali; distinta da un incrocio il più semplice e il più legato; è costituita da una serie di fili disposi in senso della lunghezza che si intrecciano col filo di trama in modo che questo passa una volta al disopra dei fili dispari e al disotto dei fili pari, nelia volta successiva al contrario e cosi via.
Essa si presenta già come struttura-trama-texture di particolare interesse.
Il problema per me in questo caso, è di sostituire alla struttura preesistente un'altra di natura diversa.
Mediante il trattamento con idropittura e preoccupandomi di scegliere una tela tessuta con filo finissimo, mi è facile trasformare da caratteristico ad anonimo il supporto.
La tela è preparata in eguale spessore sulle due superfici in modo che la tensione dei punti sollevati sia di pari forze permettendo la stabilità di direzione.
5. tondatura da fustella.
Tecnica usata per la realizzazione: il martello agisce in testa alla fustella posata perpendicolarmente al piano (supporto elastico) nei punti dove la progettazione ha destinato la posizione e la direzione degli elementi.
Servirmi del metodo di lavorazione «tondatura», mi ha maggiormente indotto ad analizzare di volta in volta il comportamento dell'opera.
Le costanti e le molteplicità dei fenomeni come risultato finale.
Ho dovuto quindi procedere per gradi, distinguendo le varie direzioni di ricerca, pur lavorando contemporaneamente a due problemi contrapposti (statico-dinamico).
L'energia è basata sulla duali tà che si stabilisce a tutti i livelli della concezione. L'accumulazione degli elementi traslati, rotanti, in espansione, in diminuzione graduale; generano vitalità essendo essi all'interno della costruzione in un rapporto bilaterale di forze in tensione.
forze dinamiche
⇓
⇓ ⇒ punto di vista variabile
mobilità all'interno della struttura ⇒ vibrazione
⇒ rotazione continua
Ho inteso denominare «punto di vista variabile» solo quei risultati visivi che provocano lo spettatore a spostarsi per osservare una trasformazione minima dell' immagine da una visione piana ad una visione spaziale.
Nel caso specifico gli elementi hanno un carattere unidirezionale.
La rotazione continua, a differenza senza spostamento alcuno da parte dello spettatore, ha già in sé proprietà dinamiche sufficienti.
A partire da questo grafico si può individuare come procede l'orientamento degli elementi che ruotano a 45° rapporto ad uno schema ortogonale.
Il sistema come ipotesi di interesse, ripetuto in questo ordine sulle orizzontali della superficie, darà ad elementi sollevati un fenomeno di ripartizione luminosa organizzata sulla trama verticale. Questo fenomeno avviene a prescindere dal punto di provenienza della luce che investirà il tutto.
vibrazione luminosa + ombra
giallo o bianco fluorescente inteso come non colore
Ho notato che i miei lavori alla luce naturale (se non disposti in modo particolare) soprattutto nelle stagioni di luce bassa, sono poco visibili. Questo fatto mi suggerì 'l'idea di intervenire sugli elementi con pittura fluorescente, ma solo per evidenziarli in maniera equilibrata (giallo o bianco). Attraverso questa luminescenza non ne risulta un'alterazione del significato generale; potrebbe essere una nuova occasione di fruizione all'interno dello stesso problema.
Antonio Scaccabarozzi
Antonio Scaccabarozzi, "3 Velature di bianco su fondo verde", olio su cartone telato, 2006 cm. 30x25
Antonio Scaccabarozzi- Il suo lavoro
Antonio Scaccabarozzi è nato nella città di Merate, a nord-est di Milano nel 1936. Si è diplomato alla Scuola di Arte Applicata al Castello Sforzesco di Milano frequentando i corsi dal1954 al 1959. l suoi studi avvenivano quando nell'Europa Occidentale dominavano le correnti dell'ar te informale e della astrazione lirica, mentre in molte aree nascevano altre controtendenze che ne avrebbero segnato il futuro.
All'interno del movimento informale si esprimevano v rie contraddizioni, come per esempio la tendenza concreto-a stratta e la tendenza figurativa.
Nel 1960, comunque, è nato il primo movimento di successo, formato da giovani artisti che si opponevano ai gesti spontanei, all'immaginazione soggettiva e alla casuale struttura della scuola dell'lnformale. E' in questo periodo che si formano numerosi gruppi artistici. Questi non erano soltanto un'espressione del nuovo, dell'inquietudine, democraticamente basata sulla pluralità, ma anche una indicazione del bisogno di allontanarsi da vecchie e sorpassate posizioni, tramite nuovi concetti artistici'. Una dozzina di gruppi di giovani artisti si sono formati fra il 1959 e il 1965 ed essi erano l'evidenza di un'atmosfera di porte aperte verso tutte le direzioni dell'attività creativa e produttìva in Italia. Il Gruppo T con Gianni Colombo si è costituito a Milano nel 1959 e due anni dopo il Gruppo Continuità con Argan, Dorazio, Fontana e i· due Pomodoro.
La formazione di nuove attive cellule non era un fenomeno isolato, ma Europeo se non internazionale. Mentre Pierre Restany propagava il Nouveau Realisme a Parigi nel 1959, i protagonisti del Gruppo Zero di Dusseldorf formulavano i loro punti di base. Altri gruppi si erano formati: in Germania il Neue Gruppe Sardi Saarbrucken, in Olanda il Gruppo Nul che avevano deciso di doppiare il movimento artistico che avrebbe rotto con l'informale, Nouvelles Tendences. Queste etichette collettive avevano però lo svantaggio di generalizzare. Nouvelles Tendences aveva vari punti di partenza che si riflettevano nel diverso risultato visivo. Nella base comune c'era l'importanza data all'attitudine di cominciare con un impeto innovativo, con l'intenzione co sciente di sostenere il peso della tradizione per determinare le· condizioni di base dell'arte e della percezione visiva. Volevano ricominciare, volevano esplorare le fondamenta. Proprio come lo stato subconscio e psicologico, fonte misteriosa dell'ispirazione creativa fu il centro dell'interesse artistico, così adesso lo stesso veicolo è diventato il soggetto di una investigazione estesa. Logica e sistemi, trasparenza e misurabilità, sono diventati fattori di definizione all'interno dell'espressione creativa il cui approccio analitico sarebbe difficile immaginare senza la conoscenza di metodi usati nelle scienze naturali.
In quegli anni, nel 1960 Scaccabarozzi ventiquattrenne ha lasciato Milano, allora centro dell'avanguardia Italiana, per andare a vivere a Parigi per cinque anni. In quel tempo viaggia molto in Olanda e in Inghilterra. Agli inizi degli anni sessanta Parigi è ancora il centro cosmopolita mondiale dell'arte internazionale, il depositario del nuovo e dell'avant-garde. Il giovane Scaccabarozzi prima ha sviluppato uno stile non figurativo dove gli elementi gestuali indicavano un orientamento verso la tradizione dell'astrazione lirica (Mondonico n. 11, 1962). Questo stile di pittura emozionale, da quello che possiamo accertare dalle poche fotografie di opere dei tempi di Parigi - erano solo una fase transitoria per altre, contrarie mete. A Milano dove Scaccabarozzi è ritornato nel 1965 ha sviluppato uno stile di pittura nel quale l'elemento individuale espressione di soggettività, veniva abbandonato a favore di una razionalità sintonizzata con una concezione oggettiva di lavoro. Le opere eseguite tecnicamente in modo convenzionale, a partire dal 1966 riflettono la sua intenzione a rendere impersonale il lavoro artistico. 0gnuna di esse è una sorta di istante neutralizzato in un contesto di studio, passo dopo passo nel quale sono in questione le condizioni fondamentali della pittura. Questo approccio sperimentale e il trattamento diretto di materiali pittorici collega Scaccabarozzi ad altri artisti Italiani come Fontana, Manzoni, Castellani, Colombo..
A partire dal 1966 dipinge una serie di varie tematiche, a dimostrazione sia della logica costruzione che dell'universalità del disegno concettuale. Scaccabarozzi ha esplorato questioni fondamentali di estetica che erano ricorrenti nel Mac (Movimento per l'Arte Concreta) di Milano fin dal1948.
Equilibrio Statico "Dinamico
La prima serie di lavori esplorano l'equilibrio fra gli elementi statici e dinamici dell'immagine dipinta. Equilibrio Statico Dinamico del - 1966 è ancora basato sul modo di dipingere della tradizione astratta. "Diagonale" (Fig. 13) dello stesso anno, è una pittura su tela rettangolare che ha la superficie dipinta da due toni (chiaro-scuro) che formano una linea diagonale di separazione che va dal lato superiore sinistro al lato inferiore destro. La meta destra è dipinta - di un monocromo grigio mentre la metà' sinistra di un bianco paglierino. Una struttura molto semplice è usata per mostrare alcune questioni di importante senso estetico; l'identità della forma e le condizioni della sua relatività. Il rettangolo diviso da una linea diagonale contiene due triangoli identici, uguali nel formato, nella superficie, negli angoli. Quello che li contraddistingue è la loro posizione nel rettangolo. Il triangolo bianco a sinistra sta alla base e agisce da fondamento. Appare assestato con le sue qualità dinamiche aperte verso l'alto. Il triangolo grigio, oscilla in un punto e da' la sensazione opposta di movimento e di instabilità. Questo succede anche perché questo grigio evoca una sensazione di peso e di calma mentre il bianco immateriale evoca sensazioni di non peso, di incorporeità. Un altro fatto è degno di attenzione. Che relazione c'è tra i due triangoli ? Sono entità uguali, posti una accanto all'altra, oppure il grigio sta contro uno sfondo che assomiglia a un triangolo. Conseguentemente Scaccabarozzi tratta qui temi di visualizzazione della relazione delle parti fra loro e in rapporto con l'insieme, tratta con il peso dei toni e la posizione loro assegnata, questioni di forme che esplora ripetutamente anche in altre serie di lavori. Nei due lavori monocromi Diagonale e Profilo eseguiti un anno più tardi Scaccabarozzi fa un ulteriore passo avanti. Il rettangolo blu, di piccolo formato, Diagonale (Fig. 12) è ancora diviso diagonalmente, questa volta nella direzione che ·noi usiamo per scrivere, dal lato sinistro inferiore verso la parte alta a destra e crea una sensazione di ascesa, di dinamicità lineare. Mentre la parte sinistra dell'opera con la sua superficie liscia e monocroma pare galleggiare tranquillamente, la parte destra . ottiene persino un ritmo per via delle co ste verticali della carta. Tutte e due hanno delle somiglianze con il Diagonale del 1966 menzionato prima. Il materiale, la forma e la superficie sono identiche. La differenza è che in questo caso anche il trattamento del colore è diventato uniforme, monocromo. La differenziazione delle due metà, una vaga e più statica e l'altra viva e piena di colore, avviene soltanto dal cambiamento della struttura della superficie usando tutte e due i lati dello stesso materiale. La superficie rigata attiva la luce e fa in modo da rompere il colore blu in vari toni. L'uso giocoso di entrambi i lati, l'esplorazione della relazione degli effetti e della loro influenza interattiva, appare qui per la prima volta e riapparirà più tardi.
Profilo (Fig. 11) già citato, giustappone due campi rossi dello stesso formato. Anche la sensibilità di questo lavoro, ha a che fare con il complesso equilibrio di elementi statici e dinamici. Quando l'osservatore cerca di mettere insieme le due parti dipinte che si presentano separate da uno "scompenso" verticale, si rende conto quali sono le caratteristiche che rivelano non solo le differenze, ma anche l'indipendenza delle due parti. l toni rossi sono così vicini che si potrebbe pensarli fusi in un· unico colore, ma sono anche abbastanza differenti da non poterli considerare appunto una unità omogenea. Entrambi le parti hanno una struttura distinta. La parte sinistra con i suoi bordi diritti e precisi, appare stretta e sigillata ermeticamente. L'altra parte con i bordi irregolari pare aperta e variabile. C'è un'interazione fra loro, una tensione, con poli di attrazione e di repulsione.
Strutturali
Le opere menzionate precedentemente riguardavano le relazioni di superfici monocromatiche. Nel 1969 Scaccabarozzi ha lavorato con oggetti in rilievo dove il punto, elemento costituente la struttura rappresenta il centro dello studio. l monocromi o i policromi rilievi costruiti in legno, .che incorporano le modulazioni della luce, saranno seguiti da piccoli tondi tagliati nella tela e sollevati dalla superficie. Per esempio in Sovrapposizione e Rotazione sulla Orizzontale, 1973 (Fig.14), e' stato usato .un quadrato di base organizzato con tondini tagliati e sollevati dalla superficie della tela in modo da proiettare varie ombre ovali. Solo quando l'osservatore guarda l’opera da vari punti di vista, e in relazione alla diversa luce della giornata, può rendersi conto delle vaste possibilità percettive che offre. Più elementi dinamici contiene la struttura, più il risultato dipende dalla loro attivazione percettiva. Il ciclo di lavori intitolati Strutturali, si conclude con strutture senza rilievo fatte da punti dipinti, colorati, che si chiamano Prevalenze. In una brochure del 1976 della Gallerie Lydia Megert, Luciano Caramel scriveva: "... Che cosa, infatti, prevale in queste tavole, ad esempio? La struttura di base, sempre uguale nei sei fogli? Oppure il continuo variare degli effetti percettivi dato dal modificarsi delle qualità dei grigi e della misura dei punti ? Il ribaltarsi negativo - positivo o la persistenza della medesima costruzione? E, nella successione virtuale di piani prodotta dal mutare di grandezze e luminosità è il fondo ad imporsi, o il primo piano, o quelli intermedi ? E si potrebbe continuare.
Misurazioni
Nel 1979 i problemi principali della relatività e del molteplice significato dei sistemi razionalmente ordinati, che fanno capo agli Strutturali, sono seguiti, logicamente si può dire, da esplorazioni sul significato della misura, sulle proporzioni, sulla misurabilità in generale.
L’opera Misura reale Misura rappresentata del 1979 (Fig. 16) è un esempio iniziale di questi lavori. Una porzione di natura le cui dimensioni sono trasferite nella riduzione fotografica e poi presentate in correlazione con le misure reali. La discrepanza fra la misura effettiva della proporzione rappresentata, e la realtà del vero spazio, diventa evidente. L’osservatore è chiamato a non usare solo la ragione e la razionalità come metro di tutte le cose. Scaccabarozzi dà un'occhiata critica alle '.'proporzioni" in tanti modi diversi. Tramite l'esperienza e la 'distanza poetica' una verità evidente, senza forma e senza qualità diventa nobiltà estetica. Mentre le dimensioni come unità neutrali, possono determinare le caratteristiche del lavoro artistico, la ‘poetica della distanza' significa un approccio particolare, con il quale possono essere esposte le contraddizioni. Nel 1980 Scaccabarozzi ha scritto su questo argomento: "L'ultima di queste esperienze è intitolata Iniezioni Endotele che tratta la misura paradossalmente in unità di volume iniettando nella tela quantità di colore diluito, che per assorbimento si trasforma in superficie. Altro paradosso è quello della misura-volume messa in crisi dal risultato visivo. Ad esempio, poniamo di iniettare 25 cm3 di colore nella tela con una sola iniezione ne risulterà una quantità di colore. lniettiamo ora l'equivalente in misura, 25 volte 1 cm.3. Il risultato che avremo ottenuto, visivamente non risulterà equivalente come ci aspettavamo".
Anche se questi lavori sono impregnati di serietà filosofica, irradiano comunque una sensibile reminiscenza delle pratiche alchemiche. Il risultato pittorico oscura il punto di partenza concettuale (Fig. 18, .1 9). L'abbondanza di blu che scorre sulle tele e si estende in campi con bordi delicati o tinge in un modo lussuoso e affascinante. L'estensione del colore sembra essere·· un processo dinamico solo momentaneamente interrotto. Scaccabarozzi mostra chiaramente come tramite vari processi, le misure convenzionali cambiano se confrontate con l'esperienza poetica. Dipinge inoltre linee rette parallele, tracciate a mano, registrando un percorso imperfetto dovuto alle condizioni oggettive. In altri lavori cerca di quantificare il tempo sopra una superficie, rappresentandolo con una serie di strati sovrapposti, di parole dipinte, dove il passato e il presente emergono da un ambito spazio-tempo. La densità crescente delle parole, porta.ad una sempre più profonda gradazione nel tempo e nello spazio. Scaccabarozzi indaga le relazioni tra il peso reale del pigmento e la capacità della sua decifrazione visiva. Frammenti di colore secco, di uguale peso, sono incollati sulla tela in un ordine ortogonale, rivelandola loro differente estensione, la loro densità, luminosità, forma ,(Fig. 17).
Quantità
Il titolo si riferisce semplicemente a una serie di lavori iniziati nel 1983, nei quali viene trattato il rapporto reciproco fra quantità di colore e area dipinta. La quantità di colore e la sua espansione formale · dipendono dall'azione, dal· processo motorio. In queste opere predomina il monocromo, la densità o la trasparenza del colore e sono .espressione del potenziale energico, del movimento del dipingere che .definisce la struttura. Nel punto dove il pennello ha toccato per la prima volta, il pigmento si è ristretto e sprofonda dal blu al nero. Al punto dove il pennello tocca con leggerezza, l'intensità del colore diminuisce e svanisce in una pallida traccia. Questo è reso più evidente ai bordi delle aree colorate, dove il movimento del pennello leggermente in diagonale, è ben visibile. Qui le differenziazioni della densità del colore sono particolarmente ricche e la. quantità colpisce il dipinto come potenziale, come energia, come la qualità stessa.
Le prime Quantità (Fig. 21, 23, 27) un leggero, flessibile, sottile foglio di plastica trasparente elevato a fini artistici per la prima volta, dopo un uso sporadico da parte della Pop Art. La plastica è un materiale povero e di breve uso. Le sue qualità limitate e senza pretese riflettono i concetti material-estetici dell'Arte Povera. Il foglio di Polietilene, trattiene una specifica quantità di colore sulla sua superficie, dopo il primo tocco di pennello, avviene immediata una saturazione che non permette ripensamenti. La superficie· dipinta definisce la quantità di colore, che deve essere- applicato rapidamente e con larghi movimenti per formare un'unica unità. Il foglio di Polietilene leggerissimo, all'inizio aderisce al muro, per via delle cariche elettrostatiche... "... fino a che col . tempo, per la rimanenza sul luogo, nei cambiamenti di temperatura, si distacca dalla parete e si forma una propria corporeità, come qualche- cosa di organico, sviluppa pieghe e onde che si risolvono in rispecchiamenti incolori di luce o riflessioni" del colore" (Cristine Brunner,1986). Contemporaneamente alle plastiche Scaccabarozzi ha eseguito acquerelli di grande formato, pitture acriliche su tela e su carta, nei quali un secondo colore interviene, stendendosi sopra un altro colore sottostante, evidenziando il movimento dell'applicazione piana del colore che ne costituisce la struttura, e la forma (Fig. 24,25).
l primi giornali dipinti sono apparsi nel 1987. Il colore usato è una vernice semitrasparente, che fa trasparire la stampa del 'giornale sotto il colore, sviluppando una situazione coloristica particolare. l bordi del giornale, le zone stampate, le linee parallele, le colonne· dell'ordine tipografico, ottengono un nuovo significato, essendo per così dire assorbiti in una condizione- di colore, assumono un nuovo valore, liberati dalla banalità e dalla effimera condizione della notizia giornaliera. Anche per i giornali del 1989, la questione è l'omogeneizzazione della visione generale, l'equilibrio pittorico-poetico fra due forze opposte.
Essenziali
Dal 1990 Scaccabarozzi lavora a corpi pittorici senza supporto (Fig. 26,28,30,34). Sono lavori liberi, flessibili, la loro unicità rende impossibile la classificazione in categorie tradizionali di pittura o di rilievo. Negli Essenziali il colore si è staccato dal suo campo naturale (supporto) ed è diventato indipendente. Quello che vediamo è il puro materiale, è il colore come essenza della pittura. Il colore è trattato in modo spesso con la spatola, formando una superficie manocroma di marcato rilievo. Ogni colpo di spatola assorbe e conserva il movimento al quale deve la sua esistenza di energia creata. La scoperta dell'energia potenziale della plasticità del colore non è nuova, ma, né i rappresentanti dell'Ecole de Paris, né il Cobra Group erano riusciti a dare una funzione ulteriore di quella specifica. Non è un tema in se stesso l'oggetto centrale della pittura. Si potrebbe tentare di descrivere gli Essenziali di Scaccabarozzi come pittura assoluta, se il termine non fosse già stato utilizzato. Ci porterebbe indietro lungo il sentiero della autoriflessione, al punto di partenza, dove si rivelano le fondamenta dell'estetica elementare.
Wolfgang Vomm
Traduzione dall'inglese di Natascia Rouchota
[Catalogo prodotto con le gallerie Hoffmann, Friedberg, D. e Katrin Rabus, Bremen, D.]
Può essere una contraddizione operare un intervento in una galleria (Il centro Gallignano Arte) il giorno dopo aver proposto una mostra in un'altra galleria (Il Falconiere). Ma una contraddizione feconda per cui l'assolutismo delle scelte viene stemperato e senz'altro superato dall'apparente giustapposizione di due opposti metodi di lavoro. La mostra dei tre artisti esponeva le rispettive opere, i cui rispettivi contenuti si incontravano grazie alla contemporaneità dell'esposizione.
Gli interventi operati subito dopo nella galleria di Gallignano hanno voluto chiarire il senso della confluenza tra le opere dei tre artisti, e portare all'estremo il significato della contrapposizione tra artista e artista, tra opera e intervento, tra i valori espressi in ognuna di essi. Nello spazio di Gallignano le superfici strutturate dai 'punti' di Scaccabarozzi si fanno di vetro e si concludono solo all'esterno di se stesse: l'osservatore guarda attraverso la superficie di vetro su cui sono disposti i punti, neri e di diverse dimensioni, per fermare lo sguardo solo su dei punti posti su una parete della galleria o su un muro esterno alla galleria: la relatività dimensionale, il gioco delle 'false prevalenze' viene spostato su un piano dinamico rispetto al quadro che al confronto assume un valore di staticità: l'occhio non si sposta solo entro il campo bidimensionale ma spazia nelle tre dimensioni: la relatività della percezione è data dalla disposizione di tre punti, uno dei quali posto su una superficie di vetro, gli altri due - diversi nelle dimensioni tra di loro e più grandi del punto sul vetro che serve come da mirino - dipinti su un muro a qualche decina di metri di distanza; l'osservatore può far coincidere alternativamente il punto-mirino con uno dei punti sul muro a seconda della distanza che pone tra sè e il vetro.
Che non è la realtà a possedere forme e dimensioni, lo capiamo non più guardando fermi un quadro e operando un'astrazione mentale per avvicinarci al senso dell'opera, ma spostandoci fisicamente, con un'esperienza quindi diretta, mediata solo dall'esperimento empirico, quello stesso avversato da tanto razionalismo di classe e di potere, talmente debole ormai che sa rispondere solo con la sua biliosa e prepotente sclerosi.
Lo 'specifico artistico' quindi espone la sua critica, collegandosi direttamente col mondo dell'ideologia senza avvalersi di mediazioni estrinseche, legittime ma non necessarie all'opera.
Questo valore si esprime nell'opera di Minoli come deragliamento rispetto a una concezione del colore assoluta e univoca. La mostra di Minoli presenta sequenze di superfici in cui le proporzioni tra i tre colori fondamentali vengono via via modificate fino a trasformare completamente la forma della superficie di partenza. A queste sequenze, distinte tra di loro e concluse in sè, si contrappongono quelle presentate nella galleria di Gallignano, in cui una sequenza rimanda all'altra senza soluzione di continuità: dell'esperimento non viene presentato l'ultimo stadio, l'unica possibilità di strutturazione dei colori, ma ciò che dell'opera rimane di solito dimenticato o al massimo registrato come memoria per un ulteriore lavoro. Il procedimento viene messo ulteriormente a nudo: non è solo la sequenza che rivela un metodo di analisi ma lo scontro delle sequenze, l'esperimento che racchiude in sè una soluzione momentaneamente sospesa; il blu, il rosso il giallo continuano a contrapporsi creando diverse forme anche fuori dell'opera, nella virtualità precedente o posteriore all'opera, al di qua di ogni risultato e di ogni esecuzione, dentro tutte le esecuzioni possibili.
La mostra di Frascà presenta assieme al Kubus e al doppio Kubus un 'parallelepipedo' riconoscibile come tale solo dal virtuale o inconscio rimando mnemonico alla figura nota. In realtà è la bidimensione del solido che invade la sua tridimensionalità, la deforma, imponendogli la sua forma, modificando il risultato della percezione. Nell'intervento dello stesso autore a Gallignano, i due termini contrapposti dell'atto percettivo non sono più soggetto-fruitore e oggetto-opera ma sembrano entrambi rappresentati nell'opera stessa, come se la si incaricasse di farsi simbolo e polo opposto di se stessa. Dall'angolo tra una parete e il pavimento partono in diagonale rispetto a due virtuali ortogonali evidenziate con un filo, due profilati di alluminio. Mentre l'immaginabile movimento di coincidenza reciproca delle due ortogonali ci induce ad applicare la stessa forma alle diagonali, in realtà queste mostrano di possedere un numero indeterminato di movimenti possibili, contenuti nell'arco dei 1800 procurati dall'incontro della parete col pavimento. L'opera sembra così la rappresentazione stessa dell'atto percettivo: dalle ortogonali come è stato sempre considerato - un movimento speculare e unilaterale, contemplativo e statico, tra un soggetto e un oggetto - dalle diagonali nella contrapposizione a tale concezione - l'atto percettivo, e conoscitivo, è il risultato dell'incontro di due termini dinamici che modificandosi provocano una molteplicità di possibili incontri. Questo Narciso non si compiace più della sua immagine venerandola come più reale della sua stessa realtà, ma si cerca, e si perde, trovandosi in mille posti e in nessuno; non contempla più se non il margine tra le sue immagini possibili, tutte vere e irreali allo stesso modo. Se con l'opera veniva messa in discussione la specularità tra immagine visiva e immagine mentale, con l'intervento si contrappone immagine a immagine, fenomeno a fenomeno; la specularità diventa un gioco di specchi che non approda mai a una conclusione definitiva. Dall'opera all'intervento, si evidenzia un metodo di comunicazione che tende a eliminare il momento verbale come mezzo didattico; l'opera - intesa come l'insieme delle operazioni - crea da sola una struttura di segni che bastano a comunicare un'intenzione sempre ed essenzialmente critica ed eversiva.
La didattica non si identifica più con una somma di contenuti, o codici o informazioni, ma con l'essenza stessa della comunicazione, l'appropriazione degli strumenti costitutivi di ogni codice.
Lo dimostra l'uso del mezzo di lavoro ridotto ai soli significati, e alla loro elementare opposizione reciproca, si direbbe con lo scopo di 'opporsi all'assenza di significato senza comportare un significato particolare' o di 'creare un senso con nulla' (Cfr. R. BARTHES - Elementi di Semiologia, Einaudi 66, p. 69) e questo senso consiste proprio in un nulla pieno e dinamico, in quanto confine tra sensi opposti.
Ne è una prova il rifiuto di investire di simboli gli strumenti di lavoro, ciò che comporta il rifiuto del loro valore connotativo o di 'parole'. Ancora una prova è costituita dalla scelta di operare in tre, che annulla ogni valore simbolico che scaturirebbe comunque da ogni singolo autore, se non altro sotto forma di 'stile'; il colore, il punto, la figura geometrica perdono nel confronto reciproco le loro connotazioni tradizionali.
Da sola ogni opera non avrebbe espresso lo stesso concetto di mutevolezza di ogni norma, legge, struttura; ogni rischio di ricostituire l' “unicità” del legame artista-opera, e di ridare una nuova 'aura' all'arte, viene sventato dalla pluralità e dalla diversificazione dialettica degli stili; e si crea attraverso questa apparente entropia la massima ricchezza di sensi. Ci si avvicina dunque a queste opere con un procedimento di progressiva liberazione da elementi che da necessari si fanno ridondanti, per cui l'opera - e l'arte - viene coma smascherata, ridotta allo scheletro e al modello di se stessa, che proprio come tale indica l'unica forma accettabile di insegnamento: l'educazione alla critica, intesa come capacità di creare differenze, di porre distinzioni, di spezzare il continuum di 'indifferenza' e staticità.
La differenza non viene ipostatizzata come struttura appartenente al reale, ma scelta come l'ipotesi che offre la massima comunicatività: essa diventa il valore archetipico del maggior numero di comunicazioni; l'opera non è più un codice che si impone nè che si propone all'osservatore, ma ciò che sostiene tutti i codici, forza non schematizzata ma capace di creare ogni schema.
Il massimo valore didattico dell'arte coincide con la sua storicità (contrapposizione-continuità col passato) che si esprime in modo specifico nel/a temporalità data dalla concatenazione delle sequenze, scientificamente rigorosa (a un presupposto segue una sola conclusione) e non arbitraria: il segno cambia ma non è intercambiabile, contrapposto ai precedenti non giustapposto. E il risultato scaturisce da una specie di prova di commutazione tra i segni, prova che può essere un modo di guardare l'opera ma anche il suo fine: la posizione del rosso nelle superfici di Minoli è frutto di una selezione di possibilità, diventa figura e/o fondo solo dopo che gli altri due colori lo evidenzino come tale.
Le due diagonali stabiliscono la loro relazione solo dopo essere state messe a confronto con le ortogonali. II punto più piccolo prevale in tridimensione sul grande solo dopo aver definito il grande e il piccolo tali in bidimensione. La virtualità, la temporalità, la storia, l'inconscio convergono come fondamento necessario all'opera, anche se come elementi non sopraffattori e condizionanti ma da mettere in discussione o a nudo attraverso un'analisi che sfuggendo definitivamente alle suggestioni del nuovo, tende alla precisione della scienza e allo scopo eversivo che la scienza ha o dovrebbe avere.
Cercare la base di ogni codice è un'operazione speculativa nel senso socratico: scoprire ciò che esiste già, recuperare le potenzialità comuni relegate a livello inconscio.
Operazione che diventa mezzo per produrre idee nuove in quanto rispondenti ai mutamenti storici e siano in grado di spiegarli, tendano quindi alla sovversione della concezione della realtà (e non più alla sua mera interpretazione) nel senso marxiano.
L'opera si pone ancora come ponte tra momento speculativo e momento attivo, tra conoscenza e trasformazione, attraverso un metodo di ribaltamento che richiama il migliore Adorno: “ Oggettivo è l'aspetto non controverso del fenomeno, il clichè accettato senza discutere, la facciata composta di dati classificati: e cioè il soggettivo; e soggettivo è di ciò che spezza quella facciata, ciò che penetra nella specifica esperienza dell'oggetto, si libera dei pregiudizi convenuti …e cioè l’oggettivo” (da Minima Moralia).
Brunella Antomarini
GALLIGNANO E' UNA MINUSCOLA FRAZIONE D'ANCONA ARROCCATA IN SPLENDIDA POSIZIONE SUI PRIMI RILIEVI DELL'ENTRO TERRA TRA MONTESICURO ED AGUGLIANO. DEL CENTRO GALLIGNANO ARTE FANNO PARTE TUTTI I CINOUECENTOTRENTAOUATTRO COMPONENTI DELLA COMUNITA'. IL CENTRO SI RIPROMETTE DI EFFETTUARE UNA SERIE PROGRAMMATA A LUNGA SCADENZA DI MOSTRE DIBATTITI CONFERENZE MANIFESTAZIONI TEATRALI DIALETTALI MUSICALI E RECUPERI DI TRADIZIONI POPOLARI. TUTTO PER LO SVILUPPO CULTURALE DELLA COMUNITA' MA SOPRATTUTTO PER CREARE UN DIALOGO CON IL MONDO DELL'ARTE APERTO AD OGNI PROPOSTA E DISCUSSIONE. IL CENTRO GALLIGNANO ARTE SI RIPROMETTE ALTRESI' DI OSPITARE A STRETTO CONTATTO CON LE FAMIGLIE ADDIRITTURA IN FAMIGLIA AL PROPRIO TAVOLO NELLE PROPRIE CASE OPERATORI ARTISTICI E CRITICI PER UN ARRICCHIMENTO RECIPROCO. COME LUOGO ESPOSITIVO E' STATO CONCESSO L'USO DI UNA CHIESA RESA INAGIBILE DA VARIE TRAVERSIE TERREMOTI E BOMBARDAMENTI CHE TUTTA LA COMUNITA' HA RESTAURATO.
" Siamo in uno spazio a poetica totale. in una sala in cui tutto è paradossale: da una parte barriere che determinano un "di qua. di là" •. che poi separano le due parti. dall 'altra barriere a muro che non ostacolano nulla. ma che recuperano il senso della bidimensione pittorica con la semplice tecnica del tagliare: come le forbici per Matisse. Condividendo questo "viaggio" di Scaccabarozzi la sensazione finale è quella della provvisorietà del tutto. Ci conduce per mano l 'emozione: vedere è come essere risucchiati da un pensiero chel 'artista non ha ancora espresso. Ciò che deve accadere è ancora più assoluto. È il senso totalizzante dell'attesa ..."
Luigi Erba
Estratto dal testo "Ragione-emozione", Lecco, Torre Viscontea, maggio 1998
Artisti presenti:
ABLEO Limatola Carmine, AGNETTI Vincenzo, ALVIANI Getulio, ANCESCHI Giovanni, APOLLONIO Marina, ARICÒ Rodolfo, BALLOCCO Mario, BIASI Alberto, BOETTI Alighiero, BONALUMI Agostino, BORIANI Davide, CALZOLARI Pier Paolo, CAMPUS Giovanni, CANNAVACCIUOLO Maurizio, CAPOGROSSI Giuseppe, CARBONE Meo, CARRINO Nicola, CASTELLANI Enrico, CATTANI Giorgio, CEROLI Mario, CONENNA Mimmo, COSTA Toni, COSTALONGA Franco, CRIPPA Roberto, DADAMAINO, D’ANGELO Claudio, DE ALEXANDRIS Sandro, DEGLI ANGELI Daniele, DELLEPIANE Beppe, DE LORENZO Daniela, DE VECCHI Gabriele, DI BELLO Bruno, DORAZIO Piero, FABBRI Agenore, FOGLIATI Piero, FONTANA Lucio, FUSI Walter, GANDINI Marcolino, GASTINI Marco, GERMANÀ Mimmo, GRIFFA Giorgio, GRIGNANI Franco, GRUPPO MID, GUARNERI Riccardo, ISGRÒ Emilio, KAUFMANN Massimo, LANDI Edoardo, LA PIETRA Ugo, LUCENA Victor, MARCHEGIANI Elio ,MARI Enzo, MASSIRONI Manfredo, MERZ Mario, MISSANELLI Vincenzo, MOLDI-RAVENNA Christiana, MONDINO Aldo, MORALES Carmengloria, MORANDINI Marcello, MUNARI Bruno, NANNUCCI Maurizio, NIGRO Mario, NOVELLI Gastone, PALADINO Mimmo, PAOLINI Giulio, PARMIGGIANI Claudio, PENONE Giuseppe, PERUSINI Romano, PIATTELLA Oscar, PISTOLETTO Michelangelo, PIVA Paolo, POZZATI Concetto, REGGIANI Mauro, RIELLO Antonio, SALVO, SARTORELLI Guido, SATTA Vincenzo, SCACCABAROZZI Antonio, SCHEGGI Paolo, SCIRPA Paolo, SOCCOL Giovanni, SOMAINI Francesco, STRAZZA Guido, SURBONE Mario, TADINI Emilio, TESSARI Paolo, TROJANIS Luciano, UNCINI Giuseppe, VACCARI Franco, VARISCO Grazia, VERNA Claudio, VILLA Giorgio, ZAFFARONI Dario, ZAPPETTINI Gianfranco, ZEN Giancarlo, u.a.
QUANTITA' ESSENZIALI
Invariabilmente la pittura ha dovuto fare i conti con i supporti. Invariabilmente i critici hanno dovuto tenere in debita considerazione i supporti, a volte enfatizzandone il ruolo, la funzione estetica. L'arte pittorica ha sempre implicato, non la pittura in sé stessa, ma pittura+ supporto. La pittura è sempre stata spiritualizzata. Un gesto radicale può toglier via il supporto e considerare la pittura in sé stessa? Certamente, ma a patto che il pensiero abbia saputo restare aderente al fatto, alla materialità del mondo. Autopresentazione del corpo pittorico, come una sacra rappresentazione: ESSENZIALE
E' il punto estremo toccato da Antonio Scaccabarozzi, attuale rispetto alla sua biografia artistica. Vorremmo anche dire, senza procedere a dimostrazione alcuna, punto estremo che è risultato di una ricerca lunga nel tempo e coerente.
Ma essenziale non significa semplice atomizzazione del fare pittura. Il soggetto che agisce, lo strumento che stende il colore, il colore stesso, il suo giocare e farsi determinare dalla luce, tempo e spazio: tutto è nuovamente in azione in queste opere prive di supporto.
Ma come ordinare questo vocabolario essenziale? Il tempo mi pare essere il dio ordinatore, che presiede al sorgere e al perire dell'azione pittorica. Sì perché l'esecuzione non tollera incertezze, il corpo è l'anima. Altra è la considerazione se ci si pone negli occhi del pittore: che ha un colore, da questo è dominato in una sorta di sensazione corporea che lo guida. Il tempo del colore diventa la dimensione essenziale per Scaccabarozzi. Il pittore risponde ad un bisogno; noi fruitori reagiamo all'immagine definitiva e ne ripercorriamo la storia fatturale. Certo anche per noi l'arte è un bisogno, ma la nostra esperienza muove sempre da una differenza, una distanza o un'alterità.
Si associa volentieri precisione a meccanicità. Ma è un errore. Il tempo meccanico determina la durata possibile dell'operazione: è una questione materiale che dipende dalla natura dei pigmenti. L'artista e il fruitore, come due soggetti opposti rispetto all'opera, vivono tempi, diversi per intensità d'esperienza, e distinti rispetto allo scorrere regolare del tempo- orologio. E' uno dei possibili modi di narrare il farsi qualità della quantità. Tema dominante nel lavoro di Scaccabarozzi è esattamente il convertirsi di questa in quella, o meglio l'unità indissolubile di materia e spirito, per usare un linguaggio obsoleto. Tappe antiche - un decennio fa - furono indagini intorno al concetto di misura e di prevalenza, muovendosi sempre entro un'asse che dai rilievi della percezione procedeva alla costituzione di una forma. Ma era ed è pur sempre, la forma, risultato di quell'abbraccio fatale tra quantità e qualità. Tanti abbracci, tante forme. Le manifestazioni hanno esiti distinti: l'acquerello non è il pastello dei diari, nè l'inchiostro su polietilene trasparente. La luce qui guizza laddove il vinilico cattura una luce che ha vinto alla fine sulla polvere ma ha perso così la nota squillante.
A Scaccabarozzi è essenziale questa morfologia operativa. Per noi è essenziale la permanenza dello stile, una segreta riconoscibilità, nella morfologia degli accadimenti. Il colore è tutto e tutto costituisce un colore: quantità liquida, pressione della spatola, velocità del gesto, energia .. .la percezione di sé nel tempo.
Mauro Panzera , Gen. '91