…Questi recenti lavori di Scaccabarozzi, sempre senza titolo, sono realizzati tagliando in ordinate forme un familiare e banale materiale, non amato ma pratico i cui usi giornalieri sono consueti. Il polietilene è prodotto industriale di massa, non ha proprietà espressive, è uniforme di colore e di superficie, non possiede nessuna caratteristica dei tessuti di pregiata fibra, nessuna tessitura, e nessuna storia culturale oltre a quella di servire da borse per la spesa o sacchi per rifiuti. E’ intenzione dell’arte in generale di rivelare per trasformazione, e della pittura in particolare di effettuare questa rivelazione trasformando i suoi materiali. Scaccabarozzi attraverso l’intervento sul materiale che ha scelto, lo astrae dall’utilità, dandogli nuova forma, e inserendolo come atto di intenzione artistica nel discorso visuale ,(e dell’architettura). Liberando il materiale dal suo uso quotidiano, permette allo spettatore di leggerlo in una nuova luce; in modo realistico e metafisico insieme.
Non c’è nessun aspetto socio-politico in questo atto di trasformazione: il polietilene in questi lavori non è un materiale “povero” riscattato con l’arte, nessuna associazione poetica che ricordi l’uso della tela di sacco, ferro e catrame, i sacchi e l’immondizia dell’arte povera. E’ quello che è e niente altro, un semplice materiale libero da riferimenti. La sua rivelata “bellezza” non è una proprietà inerente o una associazione sentimentale, ma un contributo conferitogli dalla determinazione estetica dell’artista. Le sue qualità, di immagine-oggetto sono percepite indipendentemente dal suo inteso valore-utilità precedente. In effetti, le proprietà che definiscono l’oggetto d’uso, al di là del suo colore, (come lo spessore, la resistenza, la durabilità, ecc.), sono senza interesse per l’amatore di oggetti d’arte. E’ la specifica natura del materiale che serve perfettamente alle intenzioni artistiche di Scaccabarozzi.
In primo luogo non ha nessuna portata ideologica; neutro e anonimo, è privo di carica affettiva. I suoi colori sono definiti chimicamente. E l’artista non ha alcuna preferenza di uno o dell’altro, poiché non esige alcuna funzione descrittiva o evocatrice. Paradossalmente, questo ha l’effetto di fare di ogni colore sorpresa nella sua nuova manifestazione, ogni taglio, riflette o assorbe la luce in direzioni lievemente diverse: questi sono effetti sui quali l’artista non ha né il potere né il desiderio di esercitare il controllo. Significativamente, Scaccabarozzi interviene sul materiale con la tecnica del tagliare in negativo, una procedura di sottrazione di materiale che crea l’opera. E’ stupefacente quanto il polietilene si adatti a tale proposito: tagliare e semplicemente appendere su un filo teso fra due chiodi. Scaccabarozzi scegliendo questo materiale, si libera dalla costrizione di decidere in rapporto al colore e alla materia. L’artista ha semplicemente tagliato e appeso: allo spettatore è affidato l’incarico di creare significato basandosi sul materiale, sul colore e sulla forma. (A tale proposito questi lavori sono categoricamente differenti dalle carte.
MEL GOODING Luglio 2000
* In questo saggio scrivo che Scaccabarozzi è un pittore, scegliendo di guardare i suoi recenti lavori di polietilene come una estensione della pittura monocromatica e come essendo perfettamente coerenti con il materiale che concerne le sue pitture meno recenti, rivolgevo la mente alle descrizioni di Matisse sulle sue ultime carte ritagliate, dove diceva: “Disegnare con le forbici”.
QUANTITA’ ESSENZIALI
Invariabilmente la pittura ha dovuto fare i conti con i supporti , a volte enfatizzandone il ruolo, la funzione estetica. L’arte pittorica ha sempre implicato, non la pittura in sé stessa, ma pittura+supporto. La pittura è sempre stata spiritualizzata.
Un gesto radicale può toglier via il supporto e considerare la pittura in sé stessa?
Certamente, ma a patto che il pensiero abbia saputo restare aderente al fatto, alla materialità del mondo.
Autopresentazione del corpo pittorico, come una sacra rappresentazione: ESSENZIALE
E’ il punto estremo toccato da Antonio Scaccabarozzi, attuale rispetto alla sua biografia artistica. Vorremmo anche dire, senza procedere a dimostrazione alcuna, punto estremo che è risultato di una ricerca lunga nel tempo e coerente.
Ma essenziale non significa semplice atomizzazione del fare pittura. Il soggetto che agisce, lo strumento che stende il colore, il colore stesso,il suo giocare a farsi determinare dalla luce, tempo e spazio: tutto è nuovamente in azione in queste opere prive di supporto.
Ma come ordinare questo vocabolario essenziale? Il tempo mi pare essere il dio ordinatore, che presiede al sorgere e al perire dell’azione pittorica. Sì perché l’esecuzione non tollera incertezze, il corpo è l’anima. Altra è la considerazione che ci si pone negli occhi del pittore: che ha un colore, da questo dominato in una sorta di sensazione corporea che lo guida. Il tempo del colore diventa la dimensione essenziale per Scaccabarozzi. Il pittore risponde ad un bisogno; noi fruitori reagiamo all’immagine definitiva e ne ripercorriamo la storia fatturale. Certo anche per noi l’arte è un bisogno, ma la nostra esperienza muove sempre da una differenza, una distanza o un’alterità.
Si associa volentieri precisione a meccanicità. Ma è un errore, Il tempo meccanico determina la durata possibile dell’operazione: è una questione materiale che dipende dalla natura dei pigmenti. L’artista e il fruitore, come due soggetti opposti rispetto all’opera, vivono tempi, diversi per intensità d’esperienza, e distinti rispetto allo scorrere regolare del tempo orologio. E’ uno dei possibili modi di narrare il farsi qualità della quantità. Tema dominante nel lavoro di Scaccabarozzi è esattamente il convertirsi di questa in quella, o meglio l’unità indissolubile di materia e spirito, per usare un linguaggio obsoleto. Tappe antiche –un decennio fa- furono indagini intorno al concettosi misura e di prevalenza, movendosi sempre entro un asse che dai rilievi della percezione procedeva alla costituzione di una forma. Ma era ed è pur sempre, la forma, il risultato di quell’abbraccio fatale tra quantità e qualità. Tanti abbracci, tante forme. Le manifestazioni hanno esiti distinti: l’acquerello non è il pastello dei diari, né l’inchiostro su polietilene trasparente. La luce qui guizza laddove il vinilico cattura una luce che ha vinto alla fine sulla polvere ma ha perso così la sua nota squillante.
A Scaccabarozzi è essenziale questa morfologia operativa. Per noi è essenziale la permanenza dello stile, una segreta riconoscibilità, nella morfologia degli accadimenti. Il colore è tutto e tutto costituisce un colore: quantità liquida, pressione della spatola, velocità del gesto, energia…la percezione di sé nel tempo.
Mauro Panzera. Gen.1991
Prevalenze
“Prevalenze” è il titolo che Scaccabarozzi ama dare ai lavori cui attualmente si dedica. Un titolo ambiguo quant’altri mai, nel suo precisare una condizione ma non il soggetto o i soggetti della condizione stessa.Che cosa, infatti, prevale in queste tavole, ad esempio? La struttura di base, sempre uguale nei sei fogli? Oppure il continuo variare degli effetti percettivi dato dal modificarsi delle qualità dei grigi e della misura dei punti? Il ribaltarsi negativo-positivo o la persistenza della medesima costruzione? E nella successione virtuale di piani prodotta dal mutare di grandezza e luminosità, è il fondo ad imporsi, o il primo piano, o quelli intermedi? Ma quali sono poi il fondo, il primo piano, quelli intermedi? E si potrebbe continuare.
Ne risulta una stimolante ambiguità di situazioni, accentuata dal porsi di tutta l’operazione intorno a soglie percettive minimali, che rende il processo di decifrazione dell’immagine e della sua polivalenza tutt’altro che agevole, in contrasto singolare – ecco un altro non secondario motivo di interesse – con l’apparente tranquillizzante ovvietà offerta al primo sguardo, cui contribuisce il rigore della distribuzione strutturale, esattamente calcolata, come è subito avvertibile. Non però attraverso moduli statici applicati convenzionalmente, secondo una logica di tipo compositivo: ma con il ricorso a sistemi di sviluppo, ove l’accento è sullo svolgersi del processo non meno che sulla sua organicità.
Luciano Caramel
Eppure ragionare è bello
Alle pareti una serie di quadri quadrati, superfici bianche gremite di puntini fitti, un intrico di diversa intensità e dimensione. A tutta prima l’accentramento formale del reticolo , che pare aver crescita dall’interno del quadro, suggerisce una tensione ottica del campo di tipo modulare in cui i rari interventi cromatici producono un effetto di scintillazione perturbante la visione. Ci si accorge poi che la suddivisione sistematica del campo, attraverso la collocazione di punti colorati sulla superficie, è “puntualizzata” da una attenta indagine strutturale delle relazioni spaziali che stanno tra punto e punto, tra segmento e segmento che punto e punto tra loro unisce. Col che si comincia a riflettere sullo pseudo movimento, dipendente dalle frequenze fisiche, ottiche e psicofisiologiche, che seduce l’occhio e che pare essere suscitato dai fenomeni di avvicinamento o di contrasto. Si scopre così come e quanto in effetti, in questi quadri, sia lontana l’intenzione plastico-dinamica, cinetica.
Il disegno, che esce evidente da una programmazione progettata e che utilizza alcuni principi della geometria proiettiva, si pone alternativo, coi suoi problemi, alla captazione luminosa e alla sua immaterialità percettiva mettendo in discussione la propria ambiguità comunicativa e persino quella ricettiva prodotta dall’intervento dello spettatore.
Che significato hanno allora i –quadri- che Antonio Scaccabarozzi espone al Centro del Portello?
Si potrebbe rispondere di presumere che con queste geometrie reticolate, ottenute da rotazioni successive di punti in un dato spazio con frequenza proporzionale progressiva, Scaccabarozzi voglia suggerirci una maggiore attenzione alla categoria dell’imprevedibile-previsto, alla casualità
strutturata, per esempio, dei cristalli.
Del resto, in oltre dieci anni di lavoro Scaccabarozzi ha analizzato e messo in discussione alcune certezze della captazione statico-dinamica a funzione estetica e la sua ricerca si è via via spostata dall’oggetto al procedimento privilegiando di quest’ultimo le ricorrenze logiche, l’aspetto combinatorio, persino la bellezza poetica della sua ragione. E ragionare per formare è bello. Senza retorica e con una estrema semplicità.
Germano Beringheli
Antonio Scaccabarozzi
Le sue opere nascono proprio da una scelta di semplicità, come reazione alla posizione inizialmente romantica di enfatizzazione e di ridondanza dell’immagine e della comunicazione.
Non il mettere bensì il levare è il segreto dell’operazione più sperimentale dell’arte, come dimostrano in questi giorni puntualizzando e confrontando le loro ricerche in una mostra comune von Greavenitz, Morellet e Colombo.
Semplicità che giunge in Scaccabarozzi fino alla rinuncia dei materiali nobili per riabilitare l’umile tela sulla quale interviene tuttavia non più con il pennello ma con altri strumenti, la fustella a mano, il martello a mano.
La tela è colorata di bianco. Sul piano bianco le tondature da fustella, sollevate di un certo angolo e in una medesima direzione per ogni insieme lineare e ruotando l’angolatura di fila in fila, provoca effetti straordinari di ripartizione luminosa. Le ore del giorno e della stagione determinano le infinite variazioni cromatiche delle sue opere.
Qual è l’elemento, il dato di fatto inoppugnabile, che differenzia l’artista da un altro e che lo caratterizza contro il pericolo di una ignominiosa disattenzione?
Nessuna critica, in realtà, si è sforzata di considerare l’artista nella sua globalità di uomo. Io vedo queste opere ma non posso farmi nessuna immagine di colui che le ha realizzate; anche nei momenti storici più felici per la tendenza all’anonimato nell’arte si è avuta coscienza che mancava qualcosa alla sua definizione e lo stesso artista si è sforzato di riguadagnare il ruolo del personaggio. Ma tra la persona e il personaggio che essa vuole rappresentare c’è una grande differenza e a me interessa la persona più che l’artista, così come l’operazione ben più che l’opera.
Anche in questo caso non vi è stata una critica impegnata che abbia tentato di evidenziare i fattori e gli strumenti che sono necessari all’artista per diventare tale, ovvero per farsi riconoscere come tale. Al contrario vi è stata una sollecitazione a considerare l’artista come un personaggio rivisitato all’interno di un gruppo, di una poetica, di una tendenza: quasi che soltanto l’appartenenza al clan possa essere considerata indizio e garanzia di valore. Cioè il riconoscimento di appartenenza precede, in questo tipo di critica e nel mercato generale dell’arte, il riconoscimento individuale e storico.
L’artista accetta o rifiuta, essendone consapevole e talvolta corresponsabile, questa situazione? Un’opera che non sia in galleria non esiste, un artista che non esponga non esiste, meglio ancora, afferma Scaccabarozzi, un’opera che non sia commerciabile non esiste. E perché sia tale deve essere individuabile cime un bene di valore e di scambio, garantito dalla sua storicizzabilità dentro un preciso riferimento culturale di appartenenza.
Cos’è dunque il clan artistico?
Cosa significa avanguardia?
Per l’artista che ha compreso il paradosso è stato relativamente facile, culturalmente, approfittare della situazione e mutarla a proprio vantaggio ponendo in primo piano se stesso come opera (e come operante, vedendosi operare, registrandosi opera-operante-operare, registrandosi vedentesi).
Ciò che caratterizza invece Scaccabarozzi è la ricerca di una chiarezza espressiva, di una semplicità totale dei mezzi, nella comunicazione e nella posizione culturale e politica.
Ernesto L.Francalanci
Venezia - Gennaio 1973
Il raro suono del silenzio
Note sul lavoro di Antonio Scaccabarozzi di Angela Madesani
(Il testo della pubblicazione è stato tolto dal sito in data 18/03/2017 e può essere richiesto da chi fosse interessato)
ANTONIO SCACCABAROZZI
Testo di ALBERTO VECA
Foto - DANTE SPINOTTI
Questa pubblicazione documenta in parte un intervento che Antonio Scaccabarozzi ha effettuato nelle sale della galleria Ferrari di Verona nel gennaio scorso. Come ogni materiale fotografico che riproduca un campo tridimensionale anche questa raccolta di immagini ha più che altro la funzione di indicare il metodo di lavoro usato più che tentare di descrivere i vari momenti dell'intervento irrimediabilmente legati allo spazio e al tempo reali.
Ma forse nel caso presente il passaggio dalla realtà alla riproduzione non è cosi dannoso come può esserlo per altri casi di lavori sull'ambiente: il 'discorso' fotografico, la sequenza delle immagini infatti sono una lettura degli interventi che Scaccabarozzi ha effettuato; una angolazione diversa delle riprese, un'altezza diversa della macchina fotografica avrebbero colto situazioni diverse, nuove. La scelta che è stata fatta è allora arbitraria ma esauriente del modo di concepire lo spazio e un intervento su esso.
E in effetti per Scaccabarozzi i due momenti, quello della percezione e della conoscenza dello spazio e quello dell'intervento espressivo su esso, coincidono, consistendo l'espressività nella determinazione di un metodo di indagine.
A secondo che si tratti di un campo bidimensionale o di un campo tridimensionale evidentemente le attività di conoscenza si modifica- no; anche se Scaccabarozzi ha sempre usato - ma il termine è improrio perché ormai impreciso - la tridimensionalità,si può dire che in ogni caso esiste una diversità quando lo spettato.re considera una situazione 'oggettuale', nel quale cioè viene coinvolto in misura limitata e quando invece lo spettatore è coinvolto globalmente all'interno dell' ambiente e quindi le dimensioni dell' intervento superano il campo visivo dello spettatore.
La diversità della percezione oggettuale e della percezione ambientale aumenta la possibilità di intervento, la gamma delle variazioni che vengono messe in opera, ma non intacca o modifica il procedere della ricerca chep appunto, si basa sull'analisi del modo in cui avviene la conoscenza dello spazio. E' proprio in questa prospettiva che Scaccabarozzi opera distinguendo due momenti essenziali nel la comprensione dello spazio: una intellegibilità di indicazioni elementari (i punti) e del loro disporsi orizzontalmente e/o verticalmente, una cultura acquisita si potrebbe dire quasi una memoria dei punti stessi, delle loro dimensioni e della loro spaziatura e infine un giudizio, una verifica fra quanto abbiamo visto e quanto abbiamo immaginato, presunto. Memoria, percezione e quindi anche illusione, e giudizio, correzione sono i tre momenti della conoscenza dello spazio che Scaccabarozi vuole sottolineare. In un discorso logico, di analisi, questi tre momenti sono indicati come divisi ma in realtà sono contemporanei o quasi nell'atto reale.
L'uniformità dell'intervento, come scelta dell'immagine singola e della sua sintassi, appare contemporaneamente alla percezione dell’uniformità del diverso - quando punti di diversa dimensione ci appaiono della medesima grandezza in quanto posti a diverse distanze da noi - o alla diversità dell'eguale - quando all'inverso varia no le distanze e le dimensioni dei punti rimangono invariate.
Può sembrare, detto a parole, un gioco di alchimia, o un cerebralismo estenuato: in realtà procedere per minime variazioni vuol dire discutere i problemi della visione e della comunicazione alla radice e non in maniera grossolana. La minima variazione, delle dimensioni dei punti e delle distanze fra punti, permette ancora una sua scoperta per così dire spontanea in quanto richiede, da parte dell'osservatore, spostamenti e attenzione relativamente semplici. Non si tratta cioè di una scoperta dell'intenzione comunicativa, basata su regole da laboratorio, o sull' artificio di un atteggiamento precedentemente concordato: chi guarda, cammina e si sposta cogliendo prima di tutto una indicazione di uniformità, correggendo in un secondo momento, senza sforzi eccessivi o istruzioni da leggere, la prima impressione con la scoperta di differenze, tentando infine di legare la prima alla seconda lettura, e quindi di capire il principio ordinatore e le varie esperienze che sono state scelte come argomento dell'operazione.
Per questo motivo all'inizio si parlava, per la ricerca nel suo complesso, di indifferenza fra dimensione dell'oggetto e dimensione del l'ambiente, o fra tridimensione e bidimensione: a Scaccabarozzi interessa lo spazio risultante fra punto e punto, o meglio la relazione che esiste fra la presenza di una indicazione e la sua assenza nel campo visivo. E parlo di indicazione perché il riferimento geometrico al punto ha solo valore strumentale in quanto figura funzionalmente adatta a assolvere un compito di riferimento a un sistema di immagine in cui l'immagine ha perso la sua caratteristica di positivo nei confronti di uno sfondo negativo. Così come diventa determinante l'attività dello spettatore la cui presenza attiva, i modi e i gradi con cui si avvicina all'operazione, finiscono con l'attivare un processo di conoscenza dell'immagine che supera le stesse indicazioni fornite inizialmente. dal momento che queste ultime sono casi, esempi di un processo che può prendere in esame gli aspetti più svariati della conoscenza dello spazio.
In questo senso una ricerca come quella di Scaccabarozzi non può essere catalogata in una corrente precisa, almeno dal punto di vista di un antiquato ma sempre funzionante concetto di stile, quanto fra chi appunto preferisce una identità di metodo e paragonarsi su esso come ricerca di un ruolo.
Milano, febbraio 1978
Alberto Veca
MISURA REALE - MISURA VISIVA
Questa continuità orizzontale di misurazione operata sulle superfici della galleria Ferrari, è concepita in tre modi diversi e suddivisa in: a) Sala d'accesso della galleria; b) Sala attigua; c) pilastro. La misura costante di altezza su tutte le pareti dove sono disposti i punti nel senso orizzontale è di mm.161,5 che corrisponde all'altezza del mio occhio. I punti sono adesivi e dipinti di nero. Il primo lavoro (a) è caratterizzato dagli angoli delle pareti (anche se uno di essi risulta poco leggibile date le rientranze dei muri e le interruzioni ) e dal cambiamento di distanza da un punto all'altro, che avviene a ogni angolo nella misura di cm. 2-12-72.
Inoltre il diametro dei punti aumenta da un minimo dal primo angolo a un massimo.
Il secondo lavoro (b) si forma tenendo conto di cinque pareti e ed su ognuna di loro che avviene il cambiamento di distanza fra i punti, nella misura di cm. 2-6-18-54-162. Il diametro dei punti in questo caso è tenuto invariato.
Il terzo lavoro (c) si svolge su un pilastro a base quadrata situato nella seconda sala. I punti seguono ovviamente i quattro lati e sono distanziati nell'ordine di cm. 2-4-8-16 e il diametro è tenuto invariato anche in questo caso, dato appunto l'ubicazione del pilastro che dovrebbe fungere da sospensione spaziale.
L'intenzionalità di questo lavoro, come del resto in tutti i lavori precedenti, è quella di sperimentarne i risultati. Vale a dire prendere in considerazione i dati preesistenti in galleria come la qualità delle pareti, la loro percorribilità, il colore, le altezze, lo spazio-distanza di ogni punto di vista, ecc., e operare con altri dati (punti, colore, grandezze, disposizione, distanze fra punti) stabiliti secondo un criterio metodologico che sappiano però, in base a caratteristiche precise e attraverso il discorso di fondo, scatenare delle situazioni inattese che non siano scontate a priori dall'applicazione del metodo, ma che anzi lo rendano meno evidente aprendo a un campo più vasto di indagine.
Antonio Scaccabarozzi
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Natascia Rouchota
Antonio Scaccabarozzi
L’EMOZIONE DEL METODO
Traduzione dal greco Cristina Arici
CAPITOLO 1
Era lì, e questo bastava.
Era lì, accanto a me o lontano da me, a casa o non importa dove, e ogni cosa sembrava al suo posto. Ogni cosa partecipava alla mia felicità.
Bastava che fosse lì, da qualche parte, che esistesse entro i confini di questo mondo, che sapessi di poterlo vedere e toccare. Bastava che vivesse.
La felicità è uno stato dell’anima, una dolcezza infinita che ti anestetizza, e viaggi nel mondo fra cinismo e crudeltà, continui a viaggiare serena, leggera, senza paura delle onde e dell’oscurità dell’oceano.
Che cos’è la felicità, è quel momento magico che ti riconcilia con l’universo o forse è solo un’irrealizzabile chimera?
Nella mia vita era una terra ferma, soda, fertile, la patria della mia relazione con Antonio, riparata dalle tempeste che ne irrigavano il suolo e portavano sempre nuovo raccolto. Niente minacciava il nostro mondo.
Niente tranne la morte.
Così come venne. Intrusa, maldestra, irrevocabile.
CAPITOLO 2
La vita
Antonio amava la vita e tutto cio che era in movimento o fermo o girava o danzava o dormiva, amava e basta. E neppure lo diceva, non lo
dichiarava, quasi lo infastidiva quel concetto, “amare la vita”. Mi diceva solo che la vita gli accendeva la curiosita, e andava avanti, per vedere “alla fine cosa succederà”.
CAPITOLO 3
La prima impressione
Quando lo vidi la prima volta, indossava un paio di jeans e una camicia di cotone rosso acceso, e teneva in mano due bicchieri di vino.
Me lo avevano presentato come il “pittore che faceva dei puntini su tela e su carta”, ed ero curiosa di capire come e cosa.
I suoi occhi erano neri e brillavano, per tutta la nostra vita insieme gli avrei ripetuto quanto erano incredibilmente neri, per me, i suoi occhi. Non avevo mai visto prima occhi cosi neri, e neppure mi capito piu di vederne, dopo Antonio.
Erano neri e brillavano, occhi ridenti, sereni, un po’ piccoli e distanti fra loro, occhi amati dal primo istante in cui li vidi. Non so se sia stato un
colpo di fulmine, sicuramente pero mi fulmino l’impressione che questi occhi parlassero alla mia anima e io alla sua, e che questo nostro comunicare sarebbe durato per sempre, non sarebbe mai venuto meno.
Cosa che avvenne.
Questo nostro intimo comunicare, che spesso sfiorava l’incredibile e piuttosto improbabile idea dell’anima gemella cosi come la ricordavo in Platone, ci ha accompagnati per tutta la nostra vita insieme ed e divenuto un insostenibile peso, per me, con la morte di Antonio.
Le mani di Antonio, mani grosse, possenti, stringendo le mie già plasmavano quel mondo che mi invitava a rimanere ospite per tutto il tempo che avessi voluto.
E io accettai subito, la sera stessa in cui ci conoscemmo avvertii i miei in Grecia che era successo qualcosa di importante (!) e che non sarei tornata la stessa di quando ero partita...
Tre giorni passammo insieme. Vidi la casa-atelier, sperduta nel parco di Montevecchia, sentii l’odore del nido e del suo abbraccio, strinsi il suo corpo nel mio e dissi si, qui, qui resto, vicino a te, con te, il tuo destino sara anche il mio.
Quelle tre notti le passammo quasi insonni. Antonio mi parlava della sua pittura, dei...misteriosi Puntini che altro non erano se non l’adozione di un “segno” cosi come precisamente lo chiamava, epicentro del suo interesse e a riferimento e definizione dello spazio, mi parlava delle montagne che avevano un posto tanto importante nella sua vita, degli anni che aveva passato a Parigi e di quelli dell’infanzia a Merate.
Parlava e intanto cucinava una profumata salsa di pomodoro, apriva una bottiglia di vino, stendeva sul tavolo una tovaglia bianca.
Tutto era perfetto, per me. I libri stipati negli scaffali che aveva sistemato da solo lungo tutte le pareti della stanza centrale, i quadri alle pareti dell’atelier, il gusto degli spaghetti e il garbato silenzio della campagna e noi li, spersi in mezzo al bosco a esplorare la nostra emozione un minuto dopo l’altro...
Nella stanza centrale della casa, un’opera suscitava in modo particolare il mio interesse. Era una QUANTITA’ di colore acrilico nero, che ai margini della tela lasciava emergere pennellate di verde e di giallo. L’opera, 50x70 cm., mi appariva come un gioco, uno scherzo in musica, una vocina scandalizzata che dicesse “sono qui, anche se non mi vedi...”
“Lo vendi?” gli chiesi.
“Te lo do” mi rispose.
Mi invito a rimanere li, se lo volevo, per tutto il tempo che mi piacesse e che andasse bene a tutti e due e io, in piedi davanti alla porta mezza chiusa accettai, dissi si, vado un attimo a prendere le mie cose e arrivo fra un mese giusto.
Il Natale del 1987, con indosso un vecchio cappotto boucle di mia mamma che una volta era stato verde ma io avevo tinto di nero, atterrai all’aeroporto di Linate con una sola valigia, neppure tanto grande.
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