I mezzi da me impiegati da qualche anno, sono:

  1. la macchina da scrivere, dove l'operazione avviene sulla carta mediante pressione di un tasto (punto) a secco ripetuto e controllato, fino ad ottenere una superficie leggermente in rilievo costituita da puntini.
  2. elementi cilindrici organizzati in gruppi, di direzioni diverse, con base inserita in un piano-supporto in modo tale che facciano corpo con esso e seguentemente dipinti con colore alla nitro.
  3. tondatura da fustella, su tela dipinta a colore acrilico, con parti sollevate dei punti fustellati.

L'impiego di tali mezzi, mi pare si adatti alla. necessità di avere il controllo diretto sull'operazione, che da attività mentale diviene attività fisica, poi risultato poetico.  Persistendo nell'idea di intervenire personalmente sulla materia e dopo avere scelto materiali idonei e possibili, il potenziale fantastico, acquista un significato solo attraverso il rinnovo di un sistema (principio fondamentale) che indichi la soluzione migliore per concludere l'opera.  E' tramite questo sistema, che si stabilisce oggettivamente un contatto con essa, mezzo per il quale operatore e fruitore trovano un punto comune come stimolo alla propria sensibilità.
La scelta iniziale del rilievo, cosa in effetti irrisoria, non è fine a se stessa: è utilizzata per rendere una visualizzazione dello spazio, organizzato attraverso la necessaria relazione fra gli elementi, i quali nel caso della tondatura aggiungono un leggero fenomeno di mobilità all'interno della struttura, che si verifica qualora l'osservatore sposti il punto di visione

Antonio Scaccabarozzi 1972

 

ELABORAZIONE DI X MATERIALI PER UN PRODOTTO ARTISTICO                                                                                      

 1) SUPPORTO RIGIDO
legno compensato: strati sottilissimi di legni diversi sovrapposti con le fibre incrociate, incollati e compressi in modo da offrire alta resistenza rispetto allo spessore e scarsa sensibilità alle variazioni termiche.

 

 

 

 

 

    2) SUPPORTO ELASTICO   
 tela: una delle armature tessili fondamentali; distinta da un incrocio il più semplice e più legato; è costituita da una serie di fili disposti in senso della lunghezza che si intrecciano col filo di trama in modo che questo passa una volta al disopra dei fili dispari e al disotto dei fili pari, nella volta successiva al contrario e così via.

 

 

 

 

 3) SUPPORTO RIGIDO
legno compensato + idropittura. resistente a 6000 cicli di lavabilità, la resina acrilica del veicolo garantisce una resistenza anche all'esterno.

 

 

 

 

 

 4) SUPPORTO ELASTICO
tela + idropittura

 

 

 

 

 

 

 5) PRODOTTO NON FINITO
supporto rigido + supporto elastico + idropittura + tondatura

 

 

 

 

 

 

 6) PROTEZIONE
plexiglas. (metilmetacrilato) resina vinilica sintetica a base di aceti lene e acroleina, senza materiali di carica, ma solo pigmenti colorati: è una resina rigida, trasparentissima, termoplastica, lavorabile alle macchine utensili, lucidabile, usata per vetri di sicurezza e pezzi stampati trasparenti.

 

 

 

 

 

 7) SUPPORTO PROTEZIONE
cornice

 

 

 

 

 

 

8) PRODOTTO FINITO
opera: supporto rigido + supporto elastico + idropittura + tondatura + protezione + supporto protezione + ......

Per alcuni anni, dal 1977 fino a ieri, Antonio Scaccabarozzi ha singolarmente perseguito una strada di rimessa in discussione dei preconcetti e degli stessi strumenti della pittura, in un ciclo di lavori, differenziati nei presupposti operativi e negli esiti, intitolati alla contrapposizione fra “l’ovvietà della misura” e “la poetica della distanza”, dove al primo termine viene attribuito l’asetticità di una unità capace di definire alcune caratteristiche (peso,lunghezza,durata) di un artefatto, mentre al secondo termine viene affidato il compito dell’azione concreta, capace di contrapporsi visivamente, o di confermare quanto precedentemente dichiarato.

Da una parte allora l’invarianza del nome, del criterio di individuazione e di classificazione di un fenomeno, evidentemente ristretto al titolo preso in esame; dall’altra l’ineffabilità e quindi la ricchezza e le implicazioni che l’azione produce, suggerisce, permette di immaginare.

E’ evidente in questo atteggiamento la necessità di ridiscutere, alla luce di un personale dizionario, lo strumento e il linguaggio che la stessa esperienza aveva fino allora suggerito e definito. E contrapporre il ‘nome’ alla ‘cosa’ prevede quella costante di distanza ironica capace di ribaltare, almeno nell’opera plastica, i due termini, dando una valenza relativa anche a quanto dovrebbe essere assoluto e adottare il criterio di constatazione del primo nell’operare pratico. Da questo punto di vista non esiste nell’operare alcun atteggiamento di “contraffazione, e di “correzione” del risultato; eventualmente l’inganno, la parzializzazione si afferma a monte del processo, appunto nella dichiarazione dell’unità di misura utilizzata.

Scaccabarozzi ha allora adottato, scegliendo un ampio quanto ulteriormente ingrandibile repertorio di tecniche, dalla stesura uniforme del pennello, all’immersione della tela nel pigmento diluito, all’iniezione sulla tela stessa, all’applicazione infine sul supporto di grumi di colore, verificando in questo modo i diversi effetti, o meglio i diversi comportamenti che gli strumenti materiali utilizzati (superficie e pigmento) realizzavano a partire dall’unità di misura dichiarata: dimensione lineare, area, volume, ecc. Le opere del ciclo risultano allora essere nomenclature di un repertorio tendente all’infinito, perché diverso è il comportamento della ‘cosa’ in quanto troppe e variate sono le componenti fisiche ma anche mentali e psicologiche in gioco: per questo risulta decisivo l’atteggiamento ironico, di distanza rispetto alla perentorietà dell’esperimento, alla corrispondenza fra l’immagine e la didascalia, risultando il primo registro incommensurabile rispetto al secondo, almeno sul piano logico; o a volte il secondo intricato nel primo, diventando la didascalia immagine, e quindi contraendo le medesime caratteristiche di azione negate sul piano verbale.

All’esaurirsi di questa fase, caratterizzata dall’esposizione degli strumenti di lavoro, dalla indicazione delle loro qualità, negando in questo modo alla dimensione espressiva una sua valenza illustrativa se non quella del puro e semplice processo operativo, Scaccabarozzi ha recentemente abbandonato l’impianto gabellare, del confronto fra azioni e materie diversamente trattate, per una più sintetica e perentoria operazione di pittura.

Ma su quest’ultimo termine occorre un breve chiarimento: escluso evidentemente una conversione al “mestiere”, il ragionamento sembra assumere quello più drastico del dipingere, come organizzare una campitura,e quindi realizzare nella radicalità della figura, i procedimenti, le attenzioni e le attese del fare espressivo. E’ evidente, rispetto a quanto detto precedentemente, una continuità a regolare l’intenzione dell’operare: non a caso questa nuova fase è accompagnata da un materiale di supporto e da una tecnica di stesura sostanzialmente diversa rispetto ai casi precedenti.

Nella sua indagine sui materiali infatti Scaccabarozzi ha trovato – ma in questo scoperta e invenzione sembrano seguire dinamiche parallele: la pellicola di Polietilene utilizzata in campo industriale che, una volta trattata per ricevere un adatto pigmento, conosce una trasformazione chimica che rende solidale la stesura cromatica alla superficie.

Ecco allora le nuove qualità dell’opera, la trasparenza e la duttile consistenza del supporto, dai contorni e dai comportamenti variabili da una parte, dall’altra l’assenza di spessore, di pittura applicata su una superficie che risulta trasformata dall’incontro con il pigmento. La difficoltà di stesura, l’impossibilità di qualunque correzione o ritocco, la coincidenza quindi fra azione dell’artista e l’immagine risultante, l’inconsistenza infine di qualunque elemento di supporto che possa modificare l’oggetto: sono queste le caratteristiche materiali che hanno spinto Scaccabarozzi a approfondite progressivamente le risposte fisiche e le qualità espressive del nuovo mezzo. L’oggetto esiste solo in quanto risulta definito dalla stesura che, più o meno uniforme a seconda della consistenza del pigmento, occupa buona parte della superficie: alla apparente assenza di ‘misurazione’, o comunque di confronto, la figura, evidentemente variabile a secondo le dimensioni del campo, si costituisce costantemente con una porzione di perimetro esatta, secondo le regole della geometria, e la porzione restante lasciata a una più indefinita e irregolare chiusura, in cui risulta in modo esplicito la pennellata, le sue dimensioni, e quindi l’andamento, il processo operativo che ha reso possibile la stesura complessiva. E questa notazione dialettica, apertura a una comprensione delle fasi, e quindi ai tempi di realizzazione, viene ribadita dalla stessa collocazione sul muro o su un supporto del foglio di Polietilene steso e incollato dove il contorno della figura risulta esatto, libero e quindi capace di aderire in modo discontinuo alla base.

E sono proprio la fragilità apparente della consistenza del dipinto, l’indicazione del suo carattere, quindi della sua qualità a dispetto di una sua immediata impermeabilità, a rendere necessario il rapporto fra il materiale e la realizzazione dell’immagine.

D’altra parte, (e in questo senso una ricerca così aperta, comunque in questi ultimi anni diversificata come esiti, risulta molto più continua di quanto non possa immediatamente apparire) sempre più lucidamente l’intenzione espressiva di Scaccabarozzi sembra essere quella dell’opera come registrazione dei tempi e dei modi con cui può determinarsi la su realizzazione, in cui una cronologia esecutiva risulti chiaramente estesa, diventi il soggetto essenziale dell’operare.

  

Alberto Veca , Luglio 1983

 

 

 

 

 

 

MINIME DIFFERENZE

 Il presente contributo vuole essere soprattutto una introduzione e un invito alla lettura del gruppo di opere che sono riprodotte nel catalogo e che costituiscono uno dei temi che Antonio Scaccabarozzi ha voluto affrontare in questa occasione.

La ricerca, ma anche l’intera produzione di questi ultimi anni dell’artista, è legata al problema delle ‘minime  differenze’ e si basa sulla indicazione e sul confronto, nel singolo pezzo e nel complesso delle opere, di elementi varianti e elementi invarianti: se nella riproduzione fotografica alcune caratteristiche, come la natura e la preparazione del supporto materiale, possono essere colte con una certa difficoltà, altre varianti, come la dimensione dei punti e il loro valore cromatico, risultano tutto sommato evidenti.

In ogni caso credo sia opportuno discutere i due termini: il termine ‘Differenza’ e il termine ‘Minima’.

Una variazione, anche la più appariscente, è concettualmente possibile quando si instaura un processo di relazione fra più immagini, non importa se corrispondano a una singola opera o l’estensione dell’analisi comprenda un numero superiore di opere. Nel caso in cui, appunto, si mettono in ‘parallelo’, secondo il criterio della omogeneità o della non omogeneità, alcuni elementi individuabili e riconoscibili nell’opera, allora si può parlare di differenza: la differenza mantiene sempre, da un passaggio all’altro, una dose di continuità tale da poter far giudicare come ‘conseguente’ la successione determinata. Altrimenti il legame si rompe e si entra nella sfera della diversità, della estraneità.

Per parlare di differenza nel caso di Scaccabarozzi bisogna anche parlare di continuità, di similarità, di appartenenza degli elementi espressivi a una medesima radice e a un medesimo modo di trasformazione, limitato nei suoi passaggi. Proprio questa qualità della differenza chiarisce l’aggettivo ‘minima’ in quanto paradossalmente proprio la variazione calcolata nei suoi registri più bassi, nel tasso di novità minore, provoca apparentemente l’uniformità, la in distinzione, ma a una seconda lettura si manifesta come il modo più incisivo per indicare una differenza, e quindi una modificazione di significato.

Concepire la differenza vuol dire, si è detto, necessariamente fare un paragone, calcolare il tasso di coincidenza e il tasso di diversità esistente in due fenomeni Scaccabarozzi parte da un repertorio di immagini estremamente limitato (il punto come elemento figurale, la grandezza, la gradazione cromatica e la sua giacitura lineare come repertori variabili) e nell’incrocio di queste variabili valuta il risultato di queste modificazioni.

La limitazione in altri termini è in funzione di un discorso sulla visione che è prima di tutto una affermazione riflessiva del produrre e del connsumare immagini.

 

Riflettere vuol dire anche conoscere, e quindi giudicare quanto si produce: Scaccabarozzi infatti utilizza elementi evidenti della geometria piana che sono strumenti e non fini della operazione; strumenti di esplorazione del campo, agenti che definiscono il campo (nel caso dei quadri illustrati vengono attivate le diagonali di un quadrato con un numero costante di punti) ma che sono nello stesso tempo definiti dalle loro dimensioni e dalla loro quantità. Una volta definita l’esattezza di un programma di ricerca, ne risalta, all’atto di una lettura, la sua relatività, la sua dipendenza dalla visione; sempre che il ‘vedere’ non sia una attività “minore” della nostra coscienza, ma acquisti il valore attivo di una interpretazione, una decifrazione di valore.

L’entità dell’immagine, o di una sua parte, non esiste in quanto tale, come elemento assoluto, invariabile, ma cambia nella sua disposizione figurale e con la distanza che esiste fra l’osservatore e l’oggetto. Può sembrare una constatazione ovvia ma in realtà proprio una operazione come quella di Scaccabarozzi ha l’interesse di ricordare come quanto si ritiene ovvio spesso sia da ridiscutere, o da riaffermare, specie in un momento storico come l’attuale in cui una ottusa o tacita quiete sul piano del dibattito culturale sembra permettere una larghezza di discussione, ma in realtà ne elimina le radici, gli interrogativi più stimolanti, più radicali.

E l’interrogativo di Scaccabarozzi è quello di voler produrre un’immagine che ridefinisce autonomamente come intelligenza, conoscenza di un luogo, bidimensionale o tridimensionale  che sia, e nello stesso tempo che riaffermi la relatività, l’errore e l’approssimazione di una percezione, di una indagine individuale  che è sempre orientata, parziale.

  

Alberto Veca, maggio ‘78

 

 

 

 

Per approfondire il lavoro sulle ”minime differenze”, ho seguito un numero precisato di quadri che apparentemente potrebbero essere collocati in un contesto già sperimentato. Ma il fatto che le “ minime differenze” si ritrovino insistentemente alla base di buona parte del lavoro svolto finora, mi porta a considerarle come margini entro i quali scorre un modo di essere. Se questo però è un dato dal quale difficilmente si può prescindere, (nel senso che un individuo lo difende se ha motivo per farlo) è altrettanto vero che comunicare attraverso la visione, (come scelta di campo) implica inevitabilmente di attenersi alle leggi che regolano i processi visivi. Ma quello a cui non credo, (e purtroppo si verifica spesso) è che il discorso si esaurisca nei limiti della sperimentazione all'interno del campo in questione, senza che le forze date dalla regola interagiscano e stimolino il pensiero al di là di quello che è il visibile.

L'errore stà nel preparare il terreno per la pura constatazione di un fenomeno, o peggio dare soluzione al problema, senza rendersi conto che in campo artistico, forse l'unico punto di contatto senza violenza che vale la pena di tentare, è proprio quello di porsi come tramite attraverso il quale un'esperienza comune possa avvenire. Dice giustamente l'amico Morellet “che le opere d'arte sono dei luoghi da picnic, delle locande spagnole dove si consuma ciò che si porta con sé”.

Ciò indica proprio di prestare attenzione a che questa facoltà non sia negata da un lavoro già concluso, senza vie d'uscita.

Per ritornare al lavoro che presenterò in questa mostra, ancora una volta ho circoscritto l'operazione a un numero limitato di quadri (12 per l'esattezza) che considero quanto basta per proporre la lettura di un problema senza doverlo espletare a rigore logico-deduttivo nelle sue varie posslbllltà. Le minime differenze, non sono risultati dedotti dall'applicazione indiscriminata del metodo, ma da scelte considerevoli operate fra le varié - possibilità di soluzione.

E' da questo punto di vista e senza trasgredire le regole finora adottate che ne deriva per quel che mi riguarda la condizione importante per iniziare avventure sempre nuove - sempre vecchie in una visione sempre uguale - sempre diversa.

 

Antonio Scaccabarozzi

ANTONIO SCACCABAROZZI

Questi recenti lavori di Scaccabarozzi, sempre senza titolo, sono realizzati tagliando in ordinate forme un familiare e banale materiale, non amato ma pratico i cui usi giornalieri sono consueti. Il polietilene è prodotto industriale di massa, non ha proprietà espressive, è uniforme di colore e di superficie, non possiede nessuna caratteristica dei tessuti di pregiata fibra, nessuna tessitura, e nessuna storia culturale oltre a quella di servire da borse per la spesa o sacchi per rifiuti. E’ intenzione dell’arte in generale di rivelare per trasformazione, e della pittura in particolare di effettuare questa rivelazione trasformando i suoi materiali. Scaccabarozzi attraverso l’intervento sul materiale che ha scelto, lo astrae dall’utilità, dandogli nuova forma, e inserendolo come atto di intenzione artistica nel discorso visuale ,(e dell’architettura). Liberando il materiale dal suo uso quotidiano, permette allo spettatore di leggerlo in una nuova luce; in modo realistico e metafisico insieme. 

Non c’è nessun aspetto socio-politico in questo atto di trasformazione: il polietilene in questi lavori non è un materiale “povero” riscattato con l’arte, nessuna associazione poetica che ricordi l’uso della tela di sacco, ferro e catrame, i sacchi e l’immondizia dell’arte povera. E’ quello che è e niente altro, un semplice materiale libero da riferimenti. La sua rivelata “bellezza” non è una proprietà inerente o una associazione sentimentale, ma un contributo conferitogli dalla determinazione estetica dell’artista. Le sue qualità, di immagine-oggetto sono percepite indipendentemente dal suo inteso valore-utilità precedente. In effetti, le proprietà che definiscono l’oggetto d’uso, al di là del suo colore, (come lo spessore, la resistenza, la durabilità, ecc.), sono senza interesse per l’amatore di oggetti d’arte. E’ la specifica natura del materiale che serve perfettamente alle intenzioni artistiche di Scaccabarozzi. 

In primo luogo non ha nessuna portata ideologica; neutro e anonimo, è privo di carica affettiva. I suoi colori sono definiti chimicamente. E l’artista non ha alcuna preferenza di uno o dell’altro, poiché non esige alcuna funzione descrittiva o evocatrice. Paradossalmente, questo ha l’effetto di fare di ogni colore sorpresa nella sua nuova manifestazione, ogni taglio, riflette o assorbe la luce in direzioni lievemente diverse: questi sono effetti sui quali l’artista non ha né il potere né il desiderio di esercitare il controllo. Significativamente, Scaccabarozzi interviene sul materiale con la tecnica del tagliare in negativo, una procedura di sottrazione di materiale che crea l’opera. E’ stupefacente quanto il polietilene si adatti a tale proposito: tagliare e semplicemente appendere su un filo teso fra due chiodi. Scaccabarozzi scegliendo questo materiale, si libera dalla costrizione di decidere in rapporto al colore e alla materia. L’artista ha semplicemente tagliato e appeso: allo spettatore è affidato l’incarico di creare significato basandosi sul materiale, sul colore e sulla forma. (A tale proposito questi lavori sono categoricamente differenti dalle carte ritagliate di Matisse, dove la forma delle carte dipinte è disposta pittoricamente sulla tela o sul muro). 

Scegliendo la pura forma ortogonale nelle sue opere più recenti, Scaccabarozzi ha il pregio di rimuovere un’altra complicazione, quella del movimento dinamico della diagonale. Egli elimina qualsiasi rappresentazione formale e tutte le possibilità narrative. Noi ci troviamo di fronte alla convenzione statica e all’economia di mezzi della verticale e della orizzontale pura. Se queste forme ci ricordano le forme architettoniche come fossero diagrammi di ostacoli, listelli e stipiti di finestre, o diritti intervalli di recinzioni, e perfino  colonnati di templi, si tratta di impressioni fuggitive della mente. Non più solide di un sogno sostenuto dalle regole dell’architettura. Sono impressioni immediatamente smentite dalla diafana fragilità dell’oggetto stesso, sgualcito e piegato, sensibile a  una leggera  corrente d’aria, luccicante e ondeggiante sulla linea del filo, e attraversato dalla luce. Così queste impressioni architettoniche sono negate e confutate dal materiale che ha saputo dare loro un aspetto fisico, materiale che non richiama il legno né la pietra, e non ci ricorda nessuna solidità tipica degli elementi architettonici. Queste opere si presentano come qualcosa di raro e meraviglioso: il fenomeno del colore fatto materia.   …

  

MEL GOODING       Luglio 2000

Una mostra d'arte si può fare in tanti modi. Il modo più usuale è quello dove l'artista espone le sue ultime opere, con la vivida speranza di vedere soddisfatto il desiderio del nuovo artistico, per sè e per gli altri. Ma anche quando vengono presentate le ultimissime opere, spesso capita che queste non siano state realizzate espressamente per una mostra, ma siano il risultato complessivo di una necessità creativa, continuata nel tempo. Dunque preesistenti e successivamente impiegate per un altro scopo, già considerate in altro ambito dall'autore, che sceglie poi quelle più rispondenti all'idea della mostra che vuole fare.

In generale questo tipo di mostre si assomigliano tutte.
Svolgono la loro funzione informativa e si qualificano per la qualità delle opere, per la personalità dell'autore, che si trova in questi casi, sicuramente privato di quel divertimento creativo che sorge immediato, stimolato da fatti insoliti, imprevedibili, che sembrano aver nulla a che fare con l'arte. Ma che almeno nella peggiore delle ipotesi, alimentano un minimo di rischio, di cui troppo spesso si sente la mancanza.

Un'altra concezione di mostra che apprezzo, è diametralmente opposta alla precedente. Nulla di preordinato, non servono le opere realizzate tempo prima. Altre sono le regole, altre implicazioni si sviluppano, il campo è aperto, tutto è da inventare, anche il senso che dovrà assumere. Si comincia col visitare il posto dell'allestimento, con la mente aperta agli stimoli, si lascia che le idee vengano, magari sollecitate da minimi particolari apparentemente trascurabili, da presenze strutturali reponderanti, altro che colpisca l'immaginazione al punto tale, da liberare un'idea fondamentale, assolutamente ignota poco prima. Sfidare l'eventualità che nulla succeda, oppure che ogni sforzo si riveli banale o insoddisfacente. Ma qualora si abbia la capacità d'instaurare un campo di interazioni piene di senso, là è il luogo della creatività forte, momento magico d'incontro, tanto vitale ed entusiasmante, da far ritenere la realizzazione in opera tangibile, un fastidioso controllo dell'idea. Circostanza che si supera inevitabilmente, passando in un'altra area d'azione non priva di interesse: Come e con che cosa tradurre l'idea in realtà.


Per questa mostra di Merate dopo un breve sopraluogo, ho constatato che la Sala Civica è dotata di un pavimento predominante, al punto da diventare senza indugio la chiave del discorso.
Ho realizzato 25 pitture che si riferisco- no nella forma, colore, misure, disposizione, al disegno del pavimento. La posizione sull'alzato di fondo, evidenzia una improbabile continuità, che rende manifesta l'intenzionalità artistica. Venticinque porzioni che fanno parte di un'installazione, che hanno alcune caratteristiche comuni, ma che conservano egualmente la connotazione precipua di elemento disuguale, autonomo e significante ancorchè separato dal contesto dal quale deriva.
Non sono uguali sono solo somiglianti, perciò ognuna di loro è in grado di comunicare emozioni differenti. L'intenzione fondamentale della mostra, è di sottrarre una realtà di cui si è consapevoli (pavimento), restituendone un'altra da assumere criticamente. Confidando nell'ipotesi che si avveri un evento artistico.

 

 

Antonio Scaccabarozzi

 

Antonio Scaccabarozzi di Sandra Solimano, Genova 1991 (estratto)

La prima produzione di Scaccabarozzi (cui appartiene il ciclo di pitture Superficie sensibilizzata del 1966-1967) si colloca nell'ambito delle ricerche ottico-percettive di ambiente milanese. Rigorosamente geometrica e fredda, anche se realizzata con tecniche squisitamente pittoriche, l'opera di Scaccabarozzi si arricchisce nei primi anni Settanta di inter- venti tra il tecnologico e il manuale, certo connessi alla sua preparazione professionale, quali la fustellatura della tela, che gli consente di sollevare dal supporto rigido tondini di dimensioni diverse la cui diversa inclinazione crea, a seconda dell'illuminazione effetti decisamente optical.
Se il rapporto forma/luce costituisce uno degli elementi della sua ricerca, altrettanto importante appare sin dagli inizi la ricerca sul colore, dapprima abbinata alle estroflessioni (Quattro valori di grigio, 1973 - Rotazione orizzontale, 1972,), poi condotta su superfici piane (negli anni successivi fino al 1979) al fine di evitare, o quantomeno di ridurre al minimo, gli effetti involontari e automatici del prodotto percettivo legati alla variabilità e imprevedibilità dell'illuminazione.
Nel complesso svolgimento della vicenda artistica di Scaccabarozzi, vanno comunque tenuti presenti i frequenti contatti con l'ambiente svizzero e tedesco documentati da numerose mostre personali.
Si deve forse al rapporto con la Pittura Analitica tedesca così vicina nei suoi esiti di azzera mento alle più rarefatte ricerche percettive, ma al tempo stesso legate alle problematiche concettuali sull'arte e sui linguaggi, il progressivo spostamento di Scaccabarozzi da ricerche strutturali ottico-percettive a più libere sperimentazioni sul colore e sulla materia. Dalle pitture su materiale trasparente (polletllene)e grandi acquarelli del 1983 agli acrilici su tela del 1985 che lo condurranno sino alla densa materia dei corpi pittorici autoportanti di recente produzione.

 

 

 

Il rapporto tra emozione e metodo costituisce un termine di riferimento centrale, non solo nell' arte e nello psicodramma, ma anche nell' economia, nella tecnica, nell'industria ed anche nella politica, tornato oggi di grande attualità.

Il progetto "Emozione e metodo" non si esaurisce nell' allestimento di alcune mostre con le opere di sei artisti e nella pubblicazione del catalogo che avverrà contemporaneamente. Degli otto partecipanti al progetto siano menzionati Maximilian Wagner per il suo importante lavoro di carattere concettuale-organizzativo e Wolf-Dieter Enkelmannm per il suo notevole contributo nell'ambito della traduzione in immagini filosofiche e per la sua attività intermediaria. Il progetto realizzato con il libro e la mostra, "Emozione e Metodo", costituisce l'avvio di un processo nel quale i lavori artistici come "immagini non figurate" ed il testo filosofico come "movimento mentale di derazionalizzazione", vengono correlati, riflettendosi a vicenda e comunicando tra di loro. Solo ora può emergere sulla superficie il tema: l'esperienza dell' emozione come metodo. È impossibile comprendere il testo artistico-filosofico e percepire i lavori d'arte tramite un approccio superficiale, così come, in questo caso, l'emozione non può prorompere con e mediante il metodo.

Insolita è la combinazione di lavori artistici di una semplicità apparentemente estrema con un testo filosofico che, di primo acchito, sembra sicuramente essere tanto complicato. Questo fatto insolito può comunque venir affrontato con la propria iniziativa. Questo confronto attivo promuove un automovimento dal quale scaturirà, di volta in volta, in ognuno di noi, un libero-parlare, meditativo, del tutto prosaico, forse, oppure anche poetico. Partendo da qui, sia le opere d'arte che i pensieri filosofici iniziano a parlare producendo, dall'intimo della propria anima, il linguaggio. Da un tale movimento del linguaggio, sia collettivo sia singolo, è possibile scoprire e - in modo imprevisto ed inconsueto - sperimentare che la percezione non ha luogo senza comunicazione e che l'emozione non si comunica senza il pensiero. Poichè proprio così si genera l'emozione.

I lavori d'arte ed il testo filosofico non sono poi nient' altro che un'apertura di sentieri metodici nel corso del confronto verso una nuova esperienza del mondo: commossa-commovente. Solo nel corso di questo processo la percezione dei lavori artistici trova il suo adempimento e la comprensione del testo filosofico si rivela nella sua semplicità vivificante. Ma questa possibilità è data infine, proprio dalla difficoltà di comprensione riscontrata a prima vista. Sprigionare l'emozione con il metodo è possibile. Questo sprigionamento non è da affidarsi - oggi meno che mai - alla spontaneità ed al caso. Bisogna ricorrere al metodo - metodo, non nel senso di un mezzo strumentale di manipolazione del sentimento, ma inteso come una messa in scena collettiva liberatoria della coscienza, della capacità percettiva artistica e filosofica che trasforma lo spazio in tempo e le energie represse della vita, con un flusso, in forme imprevedibili.

Questo metodo dell'emozione, messo in scena collettivamente e da inscenare consapevolmente ed attivamente, è diventato oggigiorno indispensabile, di fronte all'impoverimento sistematico del sentimento ed all' atrofizzarsi del vivente. Esso sarà realizzabile e diventerà reale - mediante il progetto evidenziato con la mostra ed il libro - solo a lungo termine, nel corso di un processo di attualizzazione.

Questa messa in scena del progetto che si esprime con metodo, avviene in termini artistici e di creatività concettuale-linguistica e come "opera d'arte" diventerà vera e reale, solo attraverso la produzione di una nuova percezione come spazio-esperienza e tempo- vicenda - secondo Beuys - nel senso di recuperare la natura d'artista di ognuno di noi.

 Jockel Heenes ed Eberhard Simons

 Traduzione dal tedesco:
Lucia Luger-Stock

 

 

ANTONIO SCACCABAROZZI

Mentre elaboro i preparativi per realizzare una "Quantità" sono già in condizione di pregustare una soluzione in tempo breve. Questa possibilità di incontro ravvicinato con l'opera finita, mi spinge al piacere della realizzazione.
Presupposto di una idea più vasta, la singola opera prende il via dopo alcune decisioni preliminari. Misura e qualità del supporto, misura e forma del pennello, scelta del tipo di colore, sono gli elementi formali determinanti.
Uno stato d'animo particolare decide, e l'azione si compie in una stesura di colore.
Colore che presenta la sua fisicità privo di altra immagine che non sia quella della sua quantità, resa attraverso gli strumenti. Risultato appropriato e necessario di quel momento.
Un tempo emozionale, intenso, critico, di un'avventura che sembra ripetersi nel gesto e nella forma, fino a sfidare la copia.
Le "Quantità" hanno un precedente nei lavori del 1974 'Concetto ambiguo di prevalenza', anche se non si direbbe confrontando le due immagini.
"Quantità" è disposizione a una particolare felicità espressiva. Come trovarsi di fronte un campo fiorito e rendersi conto che l'attenzione viene catturata da quel fiore blu là in fondo a sinistra? Il quale suggerirà tali ragioni da essere estratto, per una maggiore considerazione, rispetto al resto.
Le "Quantità", forse, rappresentano la volontà di determinare le cose per meglio affermare le proprie scelte. Un atto quasi disperato che vorrebbe fissare qualcosa di preciso, nella illusoria speranza di prendere tempo al flusso inevitabile, continuo, del cambiamento.

 

 

Le sue opere nascono proprio da una scelta di semplicità, come reazione alla posizione inizialmente romantica di enfatizzazione e di ridondanza dell'immagine e della comunicazione. Non il mettere bensì il levare è il segreto dell'operazione più sperimentale dell'arte, come dimostrano proprio in questi giorni puntualizzando e confrontando le loro ricerche in una mostra comune von Graevenitz, Morellet e Colombo.

Semplicità che giunge in Scaccabarozzi fino alla rinuncia dei materiali nobili per riabilitare l'umile tela sulla quale interviene tuttavia non più con il pennello ma con altri strumenti, la fustella a mano, il martello a mano.

La tela è colorata di bianco. Sul piano bianco le tondature da fustella, sollevate di un certo angolo e in una medesima direzione per ogni insieme lineare e ruotando l'angolatura di fila in fila, provoca effetti straordinari di ripartizione luminosa. Le ore del giorno e della stagione determinano le infinite variazioni cromati che delle sue opere.

Qual è l'elemento, il dato di fatto inoppugnabile, che differenzia l'artista da un altro e che lo caratterizza contro il pericolo di una ignominiosa disattenzione?

Nessuna critica, in realtà, si è sforzata di considerare l'artista nella sua globalità di uomo. lo vedo queste opere ma non posso farmi alcuna immagine di colui che le ha realizzate; anche nei momenti storici più felici per la tendenza all'anonimato nell'arte si è avuta coscienza che mancava qualcosa alla sua definizione e lo stesso artista si è sforzato di riguadagnare il ruolo del personaggio. Ma tra la persona e il personaggio che essa vuole rappresentare c'è una grande differenza e a me interessa la persona ben più che l'artista, così come l'operazione ben più che l'opera.

Anche in questo caso non vi è stata uria critica impegnata che abbia tentato di evidenziare i fattori e gli strumenti che sono necessari all'artista per diventare tale, ovvero per farsi riconoscere come tale. AI contrario vi è stata una sollecitazione a considerare l'artista come un personaggio rivisitato all'interno di un gruppo, di una poetica, di una tendenza: quasi che soltanto l'appartenenza al clan possa essere considerata indizio e garanzia di valore. Cioè il riconoscimento di appartenenza precede, in questo tipo di critica e nel mercato generale dell'arte, il riconoscimento individuale e storico.

L'artista accetta o rifiuta, essendone consapevole e talvolta corresponsabile, questa situazione? Un'opera che non sia in galleria non esiste, un artista che non esponga non esiste, meglio ancora, afferma Scaccabarozzi, un'opera che non sia commerciabile non esiste. E perchè sia tale deve essere individuabile come un bene di valore e di scambio, garantito dalla sua storicizzabilità dentro un preciso riferimento culturale di appartenenza.

Cos'è dunque il clan artistico?
Cosa significa avanguardia?

Per l'artista che ha compreso il paradosso è stato relativamente facile, culturalmente, approfittare della situazione e mutarla a proprio vantaggio ponendo in primo piano se stesso come opera (e come operante, vedendosi operare, registrandosi opera-operante-operare, registrandosi vedentesi).

Ciò che caratterizza invece Scaccabarozzi è la ricerca di una chiarezza espressiva, di una semplicità totale nei mezzi, nella comunicazione e nella posizione culturale e politica.

 

ERNESTO L. FRANCALANCI

da "Antonio Scaccabarozzi - His work" di Wolfgang Vomm
testo in catalogo per la mostra presso la Städtische Galerie di Bergisch Gladbach

   Equilibrio Statico Dinamico del - 1966 è  ancora basato sul modo  di  dipingere della  tradizione astratta. "Diagonale"  (Fig. 13) dello stesso anno, è una pittura su tela rettangolare che ha la superficie dipinta da due toni (chiaro-scuro) che formano una linea diagonale di separazione che va dal lato superiore sinistro al lato inferiore destro. La meta destra è dipinta - di un monocromo grigio mentre la metà' sinistra di un bianco paglierino. Una struttura molto semplice  è  usata per  mostrare alcune questioni di importante senso estetico; l'identità della forma e le condizioni della sua relatività. Il rettangolo diviso da una linea diagonale  contiene due triangoli identici, uguali nel formato, nella superficie, negli angoli. Quello che li contraddistingue è la loro posizione nel rettangolo. Il triangolo  bianco  a sinistra sta alla base e  agisce  da fondamento. Appare assestato con le sue qualità dinamiche aperte verso  l'alto. Il triangolo grigio, oscilla in un punto e da' la sensazione opposta di movimento  e di instabilità. Questo succede anche perché questo grigio evoca una sensazione  di peso e di calma mentre  il bianco immateriale evoca sensazioni di non peso, di incorporeità. Un altro fatto è degno di attenzione. Che relazione c'è tra i due triangoli ? Sono entità uguali, posti una accanto all'altra, oppure il grigio sta contro uno sfondo che assomiglia a un triangolo.

   Conseguentemente Scaccabarozzi tratta qui temi di visualizzazione della relazione delle parti fra loro e in rapporto con l'insieme, tratta  con il peso dei toni e la posizione  loro  assegnata,  questioni di  forme che esplora  ripetutamente anche in altre serie di lavori. Nei due lavori monocromi Diagonale e Profilo eseguiti un anno più tardi Scaccabarozzi fa un ulteriore passo avanti. Il rettangolo blu, di piccolo formato, Diagonale  è ancora diviso diagonalmente, questa volta nella direzione che ·noi usiamo per scrivere, dal lato sinistro inferiore  verso la parte alta a destra e crea una sensazione di ascesa, di dinamicità lineare. Mentre la parte sinistra dell'opera con la sua superficie liscia e monocroma  pare galleggiare tranquillamente, la parte destra . ottiene persino un ritmo per via delle co­ ste verticali della carta. Tutte e due hanno delle somiglianze con il Diagonale del 1966 menzionato prima. Il materiale, la forma e la superficie sono identiche. La differenza è che in questo caso anche il trattamento del colore è diventato uniforme, monocromo. La differenziazione delle due metà, una vaga e più statica e l'altra viva e piena di colore, avviene soltanto dal cambiamento della struttura della superficie usando tutte e due i lati dello stesso materiale. La superficie rigata attiva la luce e fa in modo da rompere il colore blu in vari toni. L'uso giocoso  di entrambi i lati, l'esplorazione  della relazione degli effetti e della loro influenza interattiva, appare qui per la prima volta e riapparirà più tardi.

   Profilo già citato,  giustappone due campi rossi dello stesso formato. Anche la sensibilità di questo lavoro,  ha a che fare con il complesso equilibrio  di elementi  statici e dinamici.  Quando  l'osservatore cerca di mettere insieme le due parti dipinte che si presentano separate da uno "scompenso" verticale, si rende conto quali sono le caratteristiche che rivelano non solo le differenze, ma anche l'indipendenza delle due parti. l toni rossi sono così vicini che si potrebbe pensarli fusi in un· unico colore, ma sono anche abbastanza  differenti da  non poterli considerare appunto una unità omogenea. Entrambi le parti hanno una struttura distinta. La parte sinistra con i suoi bordi diritti e precisi, appare stretta e sigillata ermeticamente. L'altra parte con i bordi irregolari pare aperta e variabile. C'è un'interazione fra loro, una tensione, con poli di attrazione e di repulsione.

 

(traduzione di Anastasia Rouchota)

Il 4 Ottobre alle ore 18.00 si apre la mostra "Italia Zero/Cross Reference", presso la Galleria Kanalidarte di Brescia, che ospiterà opere di: 

alviani anceschi apollonio biasi bonalumi boriani
castellani chiggio colombo costa dadamaino devecchi
fontana landi lo savio manzoni massironi munari
scaccabarozzi scheggi simeti varisco vigo

La mostra rimarrà aperta fino al 15 Novembre 2014.

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