Sono davvero felice e onorato di poter condividere con l'Archivio del carissimo Antonio il mio lavoro per il progetto artistico Arte al Kilo, promosso dalla Galleria di Marina Bastianello. Una mostra collettiva allestita all'interno del Mercato San Michele di Mestre.
Mareblu
2021
scatolette di tonno, smalto e acqua,
dimensioni variabili
Delle scatolette di tonno della nota marca "Mareblu" vengono svuotate, dipinte internamente di varie tonalità di blu e infine riempite con il materiale a cui il nome fa riferimento: il mare. L'artista ispirato dalla semplicità formale e dal procedimento concettuale di Pino Pascali e Antonio Scaccabarozzi introduce nel processo creativo la restituzione della verità al prodotto commerciale.
Giovanni Rossi
La mostra antologica dedicata all'artista Antonio Scaccabarozzi (Merate, 1936-Santa Maria Hoè, Lecco, 2008), protagonista della ricerca concettuale degli anni Settanta e rivoluzionario inventore di un nuovo linguaggio pittorico tra gli anni Ottanta e il nuovo Millennio, sin dal titolo legge l’indagine dell’artista nella sua relazione con l’acqua, intesa non solo quale materiale presente in gran parte delle sue sperimentazioni pittoriche, ma anche come riferimento teorico e progettuale della poetica dell’artista, con peculiare attenzione ai cicli di opere nei quali l’acqua, ora componente costitutiva dell’opera ora allusione cromatica, è fondamentale e ricorrente.
Il percorso si addentra quindi nei cicli delle opere dedicate alle Immersioni (primi anni Ottanta), dove l’artista verifica il potere di assorbimento di colore diluito in acqua delle tele non preparate, ottenendo campiture dove una parte è dominata dal colore assorbito e disteso e una parte dal vuoto e dall’assenza, alle Iniezioni (primi anni Ottanta), dove con l’uso di peculiari siringhe Scaccabarozzi verifica la diversa reazione del supporto rispetto alla densità dei liquidi cromatici iniettati in esso, creando reti e punti cromatici di ipnotica bellezza.
Sono poi esposti i cosiddetti Acquerelli, lavori dove l’artista sigilla simbolicamente il colore diluito in acqua in una bottiglia, affiancandolo a opere dipinte col medesimo liquido, come una mappa misteriosa consegnata ai superstiti di un’arte futura.
Il percorso prosegue con le opere realizzate fino al nuovo Millennio con e sui fogli di polietilene trasparente o colorato: membrane plastiche che Scaccabarozzi ora trasforma in superfici dove liberare la pennellata di colore, nelle Quantità libere (1982-1990); in altri casi, il polietilene colorato o trasparente è sagomato e tagliato, a formare barriere e squadrature del campo visivo: alla fine degli anni Novanta, Scaccabarozzi s’interroga sul problema del Vedere attraverso, dei limiti e le potenzialità della visione. “L’idea è di porre l’opera come zona-limite di forze contrapposte. Dove la tensione che si instaura fra la configurazione dell’oggetto e lo sguardo che l’oltrepassa, carichi questa idea di vitalità », scriveva nel 1999 l’artista. A questo tema si unisce il discorso ecologico: il riuso dei fogli plastici come atto di ricreazione del materiale dimenticato e quotidiano, sempre con il rigore e la perfezione che caratterizzano l’intera indagine di un artista contemporaneo e ancora da leggere, nella sua profonda sperimentazione e continua ricerca. Sono, queste, alcune suggestioni e tematiche di riflessione offerte dalla mostra: un appuntamento imperdibile con la grande storia dell’arte e della cultura italiane.
Cari amici e colleghi,
Vi comunichiamo che l’inaugurazione della mostra ANTONIO SCACCABAROZZI. Acquorea, precedentemente fissata al 26 marzo, verrà posticipata al 16 aprile 2021 conformemente alle disposizioni del DPCM del 2 marzo 2021 e alla relativa applicazione di maggiori misure restrittive per il contenimento del contagio da COVID-19.
Vi aggiorneremo appena possibile e continuate a seguirci!
Anastasia Rouchota, Direttrice dell’Archivio Antonio Scaccabarozzi, ha il piacere di annunciarvi l’inaugurazione della mostra:
Antonio Scaccabarozzi. Acquorea.
Fondazione l'Arsenale di Iseo
26 marzo - 16 maggio 2021
Un progetto dell’Archivio Antonio Scaccabarozzi, Milano
A cura di Ilaria Bignotti in collaborazione con Camilla Remondina
Con la collaborazione di Galleria Clivio Arte Moderna e Contemporanea, Milano-Parma
Con il patrocinio di Comune di Iseo
All’Arsenale di Iseo il prossimo 26 marzo 2021 apre la mostra antologica dedicata ad Antonio Scaccabarozzi (Merate, 1936-Santa Maria Hoè, Lecco, 2008), protagonista della ricerca concettuale degli anni Settanta e rivoluzionario inventore di un nuovo linguaggio pittorico tra gli anni Ottanta e il nuovo Millennio.
La mostra comprende un’ampia rassegna che si estende dagli anni Settanta al nuovo Millennio, con peculiare attenzione alle opere dove è centrale la relazione con l’acqua, intesa non solo quale materiale presente in gran parte delle sperimentazioni pittoriche, ma anche come riferimento iconico e spirituale della poetica dell’artista.
Mostra personale
SEEING THROUGH / Vedere Attraverso, con curatela di Elisabetta Longari, presso la Casa Italiana Zerilli-Marimò a New York.
Inaugurazione:
Mercoledì 22 febbraio 2017, dalle ore 18.00
24 West 12th Street, New York, NY
Durante l'inaugurazione sarà proiettato il cortometraggio di animazione Punto d'aria, realizzato da Monica Saccomandi, docente all'Accademia di Belle Arti "Albertina", Torino.
Antonio Scaccabarozzi (Merate, 1936 - 2008) e Marthe Keller (New York, 1948) appartengono a generazioni artistiche diverse, hanno avuto un'educazione culturale differente, vissuto su diversi continenti (nonostante Marthe Keller sia stata presente in Europa, ed in particolare in Italia, per un lungo periodo di tempo) e sperimentato con stili differenti.
Se confrontiamo sistematicamente le loro opere, però, i due pittori sembrano muoversi spinti da simili problemi visivi, suggerendo risposte inaspettatamente relazionate fra loro. Entrambi, difatti, basano le dinamiche percettive delle proprie opere sull'esperienza del vedere attraverso.
Antonio Scaccabarozzi: il coraggio della ricerca.
Ernesto Luciano Francalanci in conversazione con Ilaria Bignotti, 2 dicembre 2019
Brescia-Venezia, I.B. Chi è Antonio Scaccabarozzi per Ernesto Francalanci e cosa ha rappresentato nella sua esperienza di critico d'arte militante?
E.L.F. Pensare ad Antonio Scaccabarozzi mi trasmette una certa nostalgia: quello di allora era un mondo pieno di contraddizioni, e Antonio lo esprimeva perfettamente, esprimeva quella velocità in modo totale e fatale: non dimentichiamo che Antonio perse la vita in motocicletta, quella stessa motocicletta che ha fatto morire anche Pino Pascali, esattamente 40 anni prima di Antonio, nel 1968.
Avevo parlato con Pino proprio la settimana prima della sua tragedia, perché allora ero assistente di Umbro Apollonio che era direttore della Biennale, quella Biennale sperimentale, straordinaria in cui Pino aveva presentato le sue opere.
Ecco, quando penso ad Antonio penso a questa contraddizione, che è un po’ la contraddizione di quell’epoca, di quegli anni attorno al 1970, quando c’era una grande volontà vitalistica, di far coincidere l’arte con la vita, unita ad una grandissima qualità di saper produrre quell’arte che Filiberto Menna chiamerà e classificherà per sempre come Arte Analitica. Io sposavo questa tesi di un’arte molto simile alla scienza: pensando che anche l’arte avesse una dimensione di carattere metodologico che permettesse di comprendere e di far comprendere. Un’arte che avesse in sé quella componente che Filiberto chiamava analitica e io chiamavo metodologica.
La galleria che io avevo allora a Bergamo si chiamava “Metod” e lì abbiamo cominciato ad accogliere diversi artisti: un progetto meraviglioso che espose autori quali Mario Ballocco, Alessandro De Alexandris, Dadamaino, Aldo Schmid, e lo stesso Antonio Scaccabarozzi.
Di lui mi colpiva, e colpisce adesso rievocandolo, questa sua vicinanza con Alighiero Boetti, anche fisiognomica in un certo qual modo; entrambi avevano un aspetto esotico, dei tratti alla “messicana”. Ed entrambi, al di fuori della somiglianza fisica, avevano lo stesso stigma rivoluzionario.
Mi spiego meglio: nelle sue opere Antonio era estremamente analitico. Una sua opera, parte della mia collezione, è un quadrato, formato da piccolissime finestre circolari che si aprono, piccoli oblò regolari, perfetti, stupendi: delle fosforescenze sotterranee. Un oggetto estetico che presuppone un lavoro certosino, quasi ascetico: caratteristica che accomunava Antonio agli artisti di tutto quel gruppo che io tanto amavo.
Mi ha colpito, di loro, di Antonio, il dispendio enorme di energia che impiegavano nella realizzazione dell’oggetto, una energia sorretta da una incredibile, salda preparazione filosofica, oltre che psicofisica. Una energia che si poteva condensare ed evincere anche nella sola presenza di un taglio, un foro, o una serie di fori tutti regolari, tutti precisi, quasi meccanici ma così faticosissimamente fatti: un fare certosino, manuale. Ecco, una SCIENZA, fatta a MANO.
Questo vale per Dadamaino, per Sandro De Alexandris, per Marina Apollonio….
Artisti che con le mani e la mente si caricavano di un impegno enorme per produrre oggetti che, a ben vedere, la macchina avrebbe perfettamente prodotto. La stessa macchina che poi li avrebbe definitivamente sostituiti.
I.B. La mostra in cui lei avvia un dialogo con Scaccabarozzi è intitolata Fate il vostro gioco, 1973, Galleria del Cavallino di Venezia, mi vuole un po’ raccontare quel momento?
- L. F. La mostra nasce in un momento in cui io lancio un manifesto, firmato da moltissimi artisti, in cui sostenevo che la critica dovesse cessare di tenere un atteggiamento autoritario e invece collaborare con gli artisti in maniera unitaria.
Avevo già sperimentato tale mia posizione collaborando con la Galleria del Cavallino, inventando tale forma dialettica tra critico e artista: questi presentava al pubblico e alla critica, scegliendole egli stesso, le sue opere nelle varie stanze. In una, quella più segreta e più interna, c’era soltanto un’unica opera, quella più importante, più emblematica, e davanti all’opera c’era un tavolino su cui c’erano un registratore e delle cuffie. L’apparecchio registrava il colloquio tra il critico, me, e l’artista, che durava generalmente un’ora, 30 minuti per lato del nastro. L’artista parlava di sé, presentava la sua opera, con tutto il travaglio e la fatica che lei può immaginare, e il mio compito era proprio quello, di aiutarlo a fare uscire dalla sua bocca il senso del lavoro. Era un modo, un modello di critica anti-autoritaria, fondante un diverso scambio di autorevolezza.
A quel punto Paolo Cardazzo, che era molto acuto, mi propose di fare una mostra sul tema, e io accetto, invitando quelli che erano allora i 100 artisti più importanti del mondo. Dovevamo inaugurare il giorno stesso della Biennale di Venezia, e questo fu un errore: molti artisti erano in viaggio, distratti dalla manifestazione internazionale, per cui alcuni nomi da me individuati non furono presenti a causa di qualche disattenzione …, ma quando inaugurammo, la mostra ebbe un riscontro e un afflusso incredibili; De Chirico la visitò è anch’egli firmò il mio manifesto: una griglia quadrata con una scritta: Fate il vostro gioco.
Con questo lanciavo il mio messaggio: diventate, voi artisti, anche produttori di un pensiero che non si esaurisca all’interno dell’opera, non siate solo concettuali ma siate anche, didattici. Non è un termine adatto, ma esprime bene quello che volevo accadesse attraverso la presa di coscienza da me richiesta agli artisti stessi. Dobbiamo contestualizzare: ci trovavamo in un momento politico molto particolare, dove bisognava opporsi, chi in una maniera chi nell’altra, a quel principio di autorità che stava dilagando nel mondo; le bombe non avevano ancora finito di sollevare la loro polvere sull’Italia, sull’Europa, sull’Occidente.
Ognuno di noi si armava in maniera collettiva e personale e io ritenevo che chiunque avesse coscienza del momento terribile che stava vivendo l’Italia dovesse esprimersi politicamente con gli strumenti che aveva a disposizione.
Ecco, questo contesto, questa situazione italiani confluivano e determinavano la peculiarità della ricerca di Antonio Scaccabarozzi che era artista operante nel solco della tradizione della razionalità, cioè di quella neoavanguardia, o Ultima avanguardia come fu titolato nel libro di Lea Vergine cui collaborai, che io sostenevo fermamente: la neoavanguardia delle Nuove tendenze, la nuova speranza del neo-razionalismo. Un neo-razionalismo che pur professandosi lontano da qualsivoglia forma di spiritualismo, in sé conteneva un’altissima spiritualità: perché quando fai un taglio o un foro sulla superficie di un dipinto e fai vedere idealmente ciò che è al di là della superficie, ecco, immediatamente apri la luce su ciò che è al di là dell’apparenza - esattamente ciò che è al di là della secolare pittura, e dunque inizia il tuo dialogo con la metafisica.
A questo problema va unito il fatto che Antonio Scaccabarozzi e gli artisti della sua generazione erano molto divisi, tra la necessità di essere ancora artisti nel senso letterale del termine, con una dimostrazione di una grande qualità formale, potremmo anche dire di artigianato coltissimo, con una manualità perfetta di controllo del gesto e quindi della messa in forma dell’oggetto; e la tensione verso la concettualizzazione, che rappresenta l’altro lato del dissidio, cioè l’aspirazione a rendere l’opera, come dire, veramente più pensiero che materia. Era questa la lacerante questione: se i significati debbano prevalere sui significanti o se ancora è possibile far coincidere, come un quadrato nero su fondo bianco, i significanti e i significati.
Si trattò di un problema grande, grandissimo, irrisolto: e non per colpa degli artisti, di Antonio e dei compagni di strada di quel momento. Ma perché è un problema interno, ontologico dell’arte: come dimostrare che questa opera è un’opera fondamentalmente mentale quando invece essa presupponeva in maniera indissolubile e implacabile la presenza dell’occhio?
Era questo peso, questa responsabilità giganteschi ad abbattersi sulla loro opera, un peso e una responsabilità acuiti dall’ondata di attenzione che veniva loro rivolta dal mondo della critica, degli studi gestaltici, degli psicologi della percezione, da coloro che sull’opera dell’artista costruivano cattedre di nuova invenzione e da collezionisti accaparratori di opere per tempi migliori, essendoci un mercato che ancora non rispondeva adeguatamente: opere che non venivano considerate tanto per il loro problema gnoseologico e concettuale quanto come tavole di esercitazione per l’occhio. Il problema, invece, era, per alcuni artisti, utilizzare l’occhio (la “percezione”, parola allora abusata) per richiamare lo sguardo. Ed ecco come possiamo seguire la divaricazione tra quegli artisti che rimanevano esercitatori ottici e coloro che, come Antonio, affronteranno la complessità anche filosofica del tempo-spazio e del ruolo “analitico” dello spettatore..
Molti di questi artisti avevano scelto di produrre opere su piccola scala, di limitate dimensioni, quasi fossero dei campi di meditazione piuttosto che di sperimentazione, altro termine che aveva preso un significato fondamentalmente tecnico invece che teorico e filosofico.
La piccola dimensione richiamava consapevolmente l’icona, trasformando l’opera stessa in un oggetto di ritualità pura, assoluta, scevra da compromessi. Questa è l’impressione che io avevo di fronte alla produzione artistica di artisti quali Scaccabarozzi e pochissimi altri: assistevo a una specie di loro attesa rituale, quasi che la forma tradizionale di critica (una dimensione narratologica molto spesso lontana da serie fondazioni epistemologiche e storiche) non fosse più necessaria nei modi tradizionali ,in attesa di un nuovo piano di confronto, di alleanza, di socialità o di fraternità: di coinvolgimento del critico alla stessa medesima responsabilità e agli stessi rischi cui incorre l’artista nel suo debutto sul vuoto ad ogni nuova creazione. Per questi motivi mi rifiutavo fermamente di interpretare le loro opere come corpi anatomici, mettendomi, come si usa dire, a servizio, ognuno con i propri saperi, in una sorta di seminario continuo.
Nel tempo, Antonio, sembra allontanarsi dal pericolo di un eccessivo rigorismo iniziale, perché l’eccesso di ordine porta con sé il pericolo dell’intransigenza fine a se stessa; per riaprire il sentiero della libertà recupera il gesto di una manualità più libera, liberata dalla geometria euclidea, dal ritmo a rime baciate, per versi più ermetici, per una pittura che ricomincia dalle origini e dunque prima della forma.
I.B. Forse le chiedo di forzare ancor più la posizione, di addensare una risposta radicale: che ruolo aveva il critico rispetto all’artista nella sua applicazione?
E.L.F. Drammatico: perché volevo co-produrre, l’opera così come volevo che l’artista co-producesse il suo pensiero critico, tant’è vero che gli artisti che avevo predliletto (tra cui Ballocco, Tornquist, Gonschior, Calderara, Ludwig, Aldo Schmid, Dadamaino, De Alexandris, Olivotto e moltissimi altri hanno prodotto opere lavorando insieme a me o condividendo con me lunghe ore peripatetiche). Sono nati momenti di grande collaborazione, proprio perché l’ambiente culturale era allora utopico e collettivistico. E il nostro concetto di opera d’arte era stato rovesciato soprattutto in “dimensione di lavoro comune”, una sorta di costruzione multidisciplinare senza nulla togliere alla intoccabile volontà di potenza dell’artista, alla sua unicità esclusiva. Tutto diventava “progetto”, un meme, che aspirava di testimoniare che l’arte era capace di trasformare la città, il mondo, l’essere umano.
I.B. Oggi si sta molto attenti a quella che è la reazione del pubblico nei confronti delle opere; e anche in quegli anni si parlava di quella che doveva essere la responsabilità dell’artista verso l’utente, che veniva chiamato in alcuni casi fruitore. Professore, qual era la sua posizione e qual era il dialogo della sua posizione con quella di Antonio, se vi siete mai confrontati su questo tema che oggi è ancora così centrale, anzi scottante, rispetto anche alla situazione fruitiva molto veloce del digitale e virtuale?
E.L.F Il rilancio delle opere di questo gruppo di artisti è relativamente recente, non hanno avuto per lungo tempo un grande riscontro nel cosiddetto vasto pubblico…solo da pochi anni sono tornate oggetto di attenzione le opere del Gruppo N, così come quelle del Gruppo T, di Anceschi, di Boriani, di Devecchi, e mi auguro che anche per Scaccabarozzi, sia pure appartenente ad un ramo diverso della pittura analitica (o.. metodologica), continui a crescere il suo riconoscimento, diventando generale.
Questo però avviene non solo per merito della critica, ma anche per lungimiranza e acutezza del collezionismo e del mercato dell’arte: finalmente, potrei dire, ci si accorge di un “tesoro di opere” che possono benissimo essere rilanciate in questo momento storico.
Altra questione interessante da sottolineare: perché improvvisamente queste opere che non posseggono un significato dal punto di vista figurativo sono oggi così richieste, direi anche così attese?
È una domanda cruciale che sottintende un inganno: l’inganno che queste opere siano pura decorazione, puro gioco di colori e linee, puro ornamento.
Pure forme, quando ho ben detto prima non era così: eppure oggi possono essere intese come tali, come puri significanti: diventano strumentali al momento in cui viviamo, in cui noi preferiamo non sapere che esistano ancora i significati, quindi vogliamo una collezione di oggetti che non ci interrogano, non vogliamo più oggetti che siano sfingi che intralciano il nostro cammino di fruitori di fronte all’opera, non vogliamo essere interrotti in questo nostro andare di corsa davanti alle opere, non vogliamo essere tenuti per la manica, non vogliamo che l’opera continui a chiederci “Ma tu chi sei che mi stai guardando?”, non vogliamo che nessuno ci ponga mai questa domanda, non vogliamo rispondere all’enigma con un altro enigma. Preferiamo restare nella certezza che questo mondo dei significati è finito. Facciamo il gioco del sistema politico ed economico. Chi intende così tali opere, e vuole così farcele intendere, come prive di significati, distrugge due volte le opere di Antonio, ma anche di Gianni Colombo, di Biasi, di Ennio Chiggio, di Getulio Alviani, di Marina Apollonio o di Giovanni Anceschi (per rimanere in Italia) e via dicendo. Perché queste opere, così intese, diventano ornamento della politica e in questo modo il loro rilancio è un rilancio cinico e strumentale.
I.B. Mi interessa approfondire questo tema del mercato che ha citato come fondamentale riattivatore, ripropositore, di queste opere che altrimenti il grande pubblico non vedrebbe. In che cosa secondo lei queste opere hanno avuto questo potenziale economico? Cosa ha fatto scattare il desiderio di artisti sconosciuti appartenenti comunque ad un decennio importante come quello degli anni Settanta da recuperare?
E.L.F. Con molto cinismo e crudeltà dico l’affidabilità, sono opere immediatamente riconoscibili, hanno un segno talmente preciso e inconfondibile... Quando un direttore di un museo acquista un’opera, che è già pregustata e prevista dal pubblico, il visitatore entra nella sala, la vede tra le altre e la riconosce immediatamente. È un problema naturalmente commerciale perché il valore dell’opera affidabile è esponenziale: man mano passa il tempo essa sarà sempre più riconosciuta perché si deposita naturalmente come un deposito di archeologia della modernità e quindi tutti faranno a gara per avere un’opera di Antonio Scaccabarozzi, e di tanti altri artisti di quel tempo.
I.B. Non è anche il fatto che proprio per questo tentativo estremo di non dare significati, alla fine queste opere diventano “democratiche” ovvero comprensibili a diversi livelli di profondità anche per un pubblico più generalista? Sono anche opere oggettivamente belle che quindi possono piacere.
E.L.F. Neanche per idea, sono assunte per il loro valore indicativo di un momento storico, per la loro grande qualità formale, stilistica e basta.
L’opera d’arte, l’oggetto, è “la cosa” più difficile che esista, non esiste “lo spettatore”. Non c’è un pubblico per l’opera d’arte, ci può essere soltanto uno studioso, perché l’opera d’arte si comprende solo tramite la teoria che la analizza (mi permetto di rimandare per capire questo concetto al mio testo È visibile solo l’oggetto che si situa all’interno della teoria che lo spiega). Per capire ciò che ha permesso il suo “mettersi informa” devi essere contemporaneamente uno storico, un sociologo, un antropologo, un semiologo; devi disporre di tutte discipline che sono necessarie per studiare l’arte e la storia dell’arte: perché non esiste una storia e non esiste un’arte, esistono infinite arti e infinite storie e soprattutto infinite discipline che cercano di accerchiare l’ultimo fortino della bellezza che è il mondo dell’arte.
È anche un mondo di crudeltà, perché fa fuori le persone che non comprendono, cioè quelle che si estasiano; di fronte ad opere come quelle di Antonio il rischio è proprio l’estasi, il “Guarda che bello”; questo aspetto della sublimità è pericolosissimo, ma quando riesci a comprendere cosa c’è dietro quel segno, quale lontanissima storia che parte agli inizi del Novecento e che giunge fino ad Antonio, nel caso specifico, uno rimane smarrito. Cominci a comprende che quell’apparenza in realtà è struttura, ma si capisce solo quando hai fatto fuori l’aspetto stesso di apparenza. È un enorme pericolo non solo per Antonio, ma per tutte le neoavanguardie, così com’è pericolosa la storia stessa dell’avanguardia… fino a che non arriva Marcel Duchamp a dirci che non occorre che l’opera sia veduta, perché basta la sua descrizione, la teoria che l’ha sostenuta.
Per paradosso, non è possibile descrivere l’opera di Antonio Scaccabarozzi e degli artisti appartenenti a quel linguaggio espressivo senza averla davanti agli occhi: la devi vedere, perché solo così puoi passare dal regime dell’occhio a quello dello sguardo. In questo senso tali opere sono anche pre-concettuali. Essere pre-concettuali significa tuttavia essere all’interno della tragica contraddizione di tale neoavanguardia: una condizione ossimorica. Ovvero che per evitare la condizione retinica devi usare il visibile stesso per superarlo.
I.B. Lei si è occupato soprattutto di alcuni cicli delle opere di Antonio Scaccabarozzi. L’ultima fase della sua produzione l’ha conosciuta?
E.L.F. A me colpisce molto il suo ritorno al monocromo, che rievoca il confine cromatico delle avanguardie sovietiche. In queste ultime opere di Antonio si affaccia una ricerca nuova che non conosco ancora bene dal punto di vista teoretico, e che vorrei cominciare a studiare per riuscire a capire il coraggio di riproporre queste “espressioni”, queste “figure” dell’impercettibile.
Antonio aveva questa dote incredibile, questa forza: il coraggio di proporre delle opere di cui solo uno studio profondo può permettere di riconoscere la genesi. Mi si permetta una osservazione di “superficie”: se il foro e le intrusioni di Fontana servono a far intravedere ciò che c’è dietro la pittura, Antonio, con le sue estrusioni, aveva fatto vedere ciò che vi è davanti, lo spazio verso lo spettatore verso cui si protende il dipinto. È l’opera che si fa avanti, che interroga. Ecco questo gesto, per quanto sempre ricondotto ad una calcolata minimalità, possiede un coraggio, la parola concetto che adeguerei all’intera produzione di Antonio, che vedo anche nelle sue ultime opere, come, per esempio, quelle intitolate Velature. Proporre la figura del velo nella pittura richiama la tragedia di Frenhofer, poiché dietro al velo non c’è che un velo e un altro velo ancora, l’ultimo di quali è l’originaria stesura del dipinto invisibile. Il velo copre trasparentemente. Perfetto ossimoro, che interpone tra i due capi del sensorio, il senziente e il sentito, un diaframma, una sorta di meccanismo amplificatore dello sguardo e del tatto, le due condizioni grazie alle quali ogni velo si disvela, rivelando la sua duplice funzione: nascondere esaltando. Ma anche esaltare proteggendo. Velo è protezione ed insieme quesito, soglia, confine. Mi sembra di vedere Antonio accanto all’opera, aspettando l’amico che gli chieda di sollevare il sipario.
L'Archivio Antonio Scaccabarozzi e lieto do annunciare che è stato pubblicato il primo contributo della Dott.sa Ilaria Bignotti sul blog dedicato all’arte e al suo insegnamento di De Agostini Scuola: DeA Live Arte.
Si intitola "Fate presto! Arte come gesto d’amore per il Pianeta " ed è una narrazione che da Andy Warhol a Olafur Eliasson a Mark Dion, da Cai-Guo Qiang a Francesca Pasquali ed Enrica Borghi racconta come l'arte stia lavorando per analizzare e migliorare la situazione ecologica mondiale.
Si ringraziano gli archivi e gli estates degli artisti, le gallerie e gli artisti stessi per avere concesso l'uso delle immagini.
Storici dell’arte e docenti della scuola secondaria condividono in questo blog le loro conoscenze e le migliori esperienze didattiche, artistiche ed estetiche da applicare anche nella didattica a distanza.
Nello specifico i contributi della Dott.sa Ilaria Bignotti analizzano e analizzeranno la ricerca di artisti internazionali, da Bill Viola a Antoni Muntadas, da Regina José Galindo a William Kentridge, da Franco Angeli a Claudio Parmiggiani, in relazione con tematiche sociali, ambientali e di cultura attuale.

Olafur Eliasson e Minik Rosing, Ice Watch. Con il supporto di Bloomberg.
Installazione: Bankside, esterno della Tate Modern, 2018.
Fotografia di Justin Sutcliffe © 2018 Olafur Eliasson.
Non abbiamo più tempo: dobbiamo agire adesso per salvare il nostro Pianeta. Lo dicono anche gli artisti attraverso le loro opere, soprattutto negli ultimi tempi, dato che il tema ambientale è tornato alla ribalta dell’opinione pubblica nelle recenti, infiammate manifestazioni sul global warming.
Tra i più celebrati nomi internazionali che da tempo lavora sul rapporto tra arte, ambiente, tecnologie, Olafur Eliasson (Copenhagen, 1967) nel dicembre 2018 ha portato gli iceberg della Groenlandia a Londra: 24 blocchi di ghiaccio, 110 tonnellate in totale davanti alla Tate Modern – museo prestigioso che da luglio 2019 gli ha dedicato una straordinaria retrospettiva – e altri 6 all’ingresso del colosso dei media “Bloomberg”, che ha sponsorizzato l’impresa titanica. I passanti hanno potuto così vedere e toccare con mano cosa sta succedendo nella calotta artica, assistendo, impotenti, allo scioglimento di questa monumentale e temporanea opera d’arte.
Molto più piccola, ma altrettanto potente nel messaggio che trasmette, è l’opera che l’artista cinese Nut Brother (Shenzhen, 1981) ha creato usando un aspirapolvere nell’inquinatissima Pechino: per cento giorni, egli ha raccolto le particelle tossiche che sono nell’aria della capitale cinese, comprimendole e trasformandole poi in un mattone.
L’artista con il mattone derivato dalla raccolta.
Un gesto semplice ed efficace, che denuncia i livelli di estrema tossicità dell’aria cinese: quanti mattoni possono essere costruiti con questa polvere mortale?

Fotografia di Wen-You Cai, courtesy Cai Studio.
Nel 2004 Cai Guo-Qiang aveva creato nove tigri, trafiggendole come dei San Sebastiano da miriadi di frecce: l’espressione del dolore lacerante e la contorsione dei loro corpi non lasciava certo indifferenti i visitatori dell’installazione al Massachussetts Museum of Contemporary Art.
Più sottile e meno violenta a primo impatto è invece l’opera di Mark Dion (New Bedford, Massachusetts, 1961) che in giro per il mondo ha creato Libraries, librerie sulla storia ornitologica di grandi metropoli da egli stesso studiata e poi simbolicamente riprodotta addobbando un grande albero secco con specie di uccelli, oggetti e libri che raccontano nei secoli della loro evoluzione: seguendo il volo e le vicende dei volatili urbani, Dion ha provato a classificare e poi ad analizzare le trasformazioni ambientali delle metropoli del suo tempo.

Il padre di tutti è Joseph Beuys (Krefeld, 1921, Düsseldorf, 1968), artista tedesco che, attraverso azioni anche estreme e poetiche installazioni, ha cercato di sensibilizzare il pubblico sui temi ambientali e sociali. Nel 1982, invitato alla settima manifestazione “Documenta” a Kassel, con l’aiuto di numerosi volontari ha avviato la piantagione di 7000 querce nella cittadina, ciascuna delle quali accompagnata da una stele di basalto: un gesto semplice, quale quello di piantare un albero, diventa attraverso il coinvolgimento della popolazione un messaggio potentissimo che già negli anni Ottanta invitava a riflettere sui temi ecologici.
Nello stesso anno, Andy Warhol chiedeva al pubblico con l’opera Fate presto! di portare un contributo per risollevare Napoli dal terremoto devastante appena accaduto: lo faceva riproducendo su tre tele il messaggio “Fate presto” che il quotidiano “Il Mattino” aveva pubblicato poco prima, chiedendo a sua volta aiuto alla comunità dei lettori del giornale.
In tempi più recenti artiste come Enrica Borghi (Verbania, 1966) e Francesca Pasquali (Bologna, 1980) hanno scelto di utilizzare gli scarti plastici e industriali per creare opere di grandissimo impatto.

Fotografia di Giorgio Caione.
Enrica Borghi, tra le principali esponenti della cosiddetta Trash Art, l’arte che lavora con i rifiuti, assembla materiali di scarto, quali bottiglie di plastica trasparenti o colorate, per creare abiti da gran serata o con la spazzatura si cuce vestiti e maschere.
Enrica Borghi, La regina, 1999-2006Musée des Boeux Arts de Bordeaux,
plastic bottles, plastic, bags, plexiglass,
Fotografia di Enrica Borghi.
Francesca Pasquali da anni lavora direttamente con le aziende, andando a scovare materiali fallati, dismessi e potenzialmente inquinanti e trasformandoli invece in meravigliose installazioni. Qualche anno fa, con l’azienda bolognese Ilip, ha realizzato Glasswall, una parete fatta di centinaia di migliaia di bicchieri di plastica che sono diventati un muro sul quale venivano proiettate luci e suoni che, attraverso dei sensori, mutavano con il passaggio del pubblico.



Fotografia di Marco Mioli
Courtesy Spazio Arte CUBO, Bologna.
Alla Fondazione Thetis, a Venezia in Biennale, ha creato un’enorme alga marina fatta di 650 chili di elastici verdi, gialli e marroni.
Nel 2018 è stata chiamata come testimonial del movimento di dismissione della plastica, a partire dalle cannucce da cocktail, dal nome di “The last straws”. Durante la performance live, organizzata da Antidote Festival, Pasquali ha composto un’opera fatta di centinaia di migliaia di cannucce da bar: tagliate a diverse altezze e assemblate su una base di plexiglas colore azzurro lucidato a specchio, le cannucce hanno formato la baia di Sydney, diventando una vera e propria opera d’arte tridimensionale ora nella Collezione dell’istituzione australiana.
Francesca Pasquali è stata profondamente ispirata dalla ricerca di artisti famosi che hanno trasformato la materia di scarto in opere d’arte: da Alberto Burri, tra i principali esponenti dell’Informale cosiddetto materico, a Antonio Scaccabarozzi, protagonista della pittura concettuale italiana degli anni Settanta, che utilizzava i fogli di polietilene trasparenti e colorati per creare installazioni ambientali e opere a parete, monocrome o formate da più strati di colori diversi: i loro nomi sono “Ekleipsis” e “Banchise”. Le prime, infatti, strato dopo strato cancellano il colore del foglio precedente, mentre le seconde ricordano le banchise di ghiaccio, eppure sono fatte di materiali che, se abbandonati, possono distruggere il nostro ecosistema, inquinandone le acque e le terre.
Antonio Scaccabarozzi, Merate,2001
Polietilene sagomato70,5×106,5 cm
Courtesy Archivio Antonio Scaccabarozzi

Antonio Scaccabarozzi, riallestimento di “Dieci Blu“, 2000, polietilene blu e trasparente, dimensioni ambientali.
Allestita nella mostra “Transient” a cura di Camilla Remondina per ACME Art Lab, 16 marzo-14 aprile 2019, spazio contemporanea (Brescia).
Photo credits Mauro Novaglio
Courtesy Archivio Antonio Scaccabarozzi, ACME Art Lab, spazio contemporanea
Dalle Banchise di Scaccabarozzi ai ghiacci di Eliasson, con i quali abbiamo aperto questo post, quel che ci insegnano gli artisti, allora, è che se dobbiamo fare presto a salvare il Pianeta, ancor meglio allora se questo “fare” corrisponda a “creare”.
Da un’idea ed a cura di Matteo Piccinali
Si tratta di tre Clinics dedicate al tema Art + Law che si terranno in modalità e-learning presso la Shanghai University of Political Science and Law, Shanghai, Cina, nelle giornate del 20 e 27 Ottobre e del 10 Novembre 2020, con la partecipazione, quali visiting professors, di professionisti del mondo dell’arte e della cultura italiane:
20 ottobre, lecture: Art+Law-Museums and Future Operation Models
- Marco Sammicheli (International Relations Chief Officer presso Triennale Milano)
- Ilaria Bignotti (Curatrice scientifica degli Archivi Paolo Scheggi, Antonio Scaccabarozzi, Francesca Pasquali)
- Mario Gerosa (Giornalista e Saggista)
- Vive Arts
27 ottobre, lecture: Art Galleries and Future Operation Models
- Stefano Rabolli Pansera (Hauser & Wirth)
- Shen Ke (Jingtian & Gongcheng Law Firm)
- Federica Angelucci e Joost Bostland (Stevenson - Cape Town)
- Vive Arts
- Lorenzo Fiaschi (Galleria Continua)
10 novembre, lecture: Private + Corporate Museums
- Claudia Zola (Fondazione Paolo e Carolina Zani)
- Giulia Zamagni (Responsabile CUBO Unipol Group)
- Francesca Cattaneo (Banca Aletti-Banco BPM Group)
Il contesto e il progetto
Alla luce dell’inattesa emergenza sanitaria globale e della necessità di rivedere e aggiornare i modelli didattici, il Magnifico Rettore dell’Università cinese "Shanghai University of Political Science and Law” (“Shupl”), con cui da molti anni l'Avvocato bresciano Matteo Piccinali collabora come visiting professor per i corsi sul diritto del commercio internazionale, ha chiesto di assistere il Dipartimento Internazionale dell’Ateneo al fine di elaborare una proposta formativa per il prossimo anno accademico 2020-2021.
La proposta formulata è stata sviluppata tenendo conto dei seguenti elementi:
- lo svolgimento di una serie di corsi monotematici in modalità e-learning, su materie “verticali” che comprendono approfondimenti riguardanti, tra gli altri, gli strumenti per il sostegno all’export del Made in Italy, il diritto e le nuove tecnologie, nonché il diritto del turismo, dell’arte e della cultura, con l’idea di esaminare i modelli operativi dell’esperienza italiana, nei suoi principali segmenti che formano il cosiddetto sistema dell'arte, quali musei e archivi d’artista, gallerie, musei privati e di impresa;
- il coinvolgimento di primari operatori attivi nei settori esaminati, in modo da raccogliere maggiori spunti da esperienze concrete da analizzare poi rispetto alle relative implicazioni giuridiche.
Alla fine dello scorso maggio, l’Università cinese ha ufficialmente presentato il Corso “The SILC Project”, deliberando l’istituzione di un corso curricolare che darà crediti agli studenti frequentanti.
La proposta relativa alle Clinics su Art & Law è stata accolta con particolare favore e interesse, in quanto ritenuta assolutamente valida dal punto di vista didattico e di approccio metodologico, ma anche in considerazione dell’opportunità di entrare in contatto con rappresentanti italiani del mondo dell’arte e della cultura.
D'altro canto, i fronti di analisi alla base del progetto rappresentano spunti di interesse sotto molteplici profili, a partire dalla elaborazione di veri e propri modelli economici innovativi per il settore e in relazione a ciascun profilo di operatore (museo, archivio, galleria, museo privato e di impresa), intesi a rappresentare un nuovo modo di valorizzazione dell’arte anche mediante il ricorso ai più recenti strumenti tecnologici. Sulla base dell’inquadramento di detti modelli da parte dei professionisti del settore, segue l’analisi sulle principali implicazioni giuridiche.
Uno degli elementi a fondamento del SILC Project è quello di enfatizzare il ruolo e l’importanza del nostro Paese; da qui l’importanza di promuovere il coinvolgimento degli operatori di settore - pubblici o privati che siano - impegnati nell’opera di promozione e valorizzazione di un patrimonio unico al mondo e tale da poter far convergere l’attenzione globale verso l’Italia.
Una leva, quindi, da sfruttare per valorizzare l’idea stessa che l’arte è bellezza, è armonia, è uno stile di vita che guarda al maggior benessere fisico e spirituale dell’uomo che deve andare oltre al dramma di eventi inattesi, quali la pandemia. L’Italia così diventa fonte d'ispirazione e modello verso cui tendere per l’elevazione umana, capace di attrarre l’interesse tanto dei mercati maturi quanto di quelli emergenti, tutti aspiranti al raggiungimento di ciò che in tal senso l’Italia da sempre rappresenta.
Mercoledì 9 settembre, alle ore 17,
sarà letta da Ilaria Bignotti la riflessione di Antonio Scaccabarozzi "Vedere attraverso" nel contesto del programma.
Blink- lampi d'arte tra le righe, trasmissione curata da Claudio Musso e dedicata al libro come idea artistica capace di stimolare, sovvertire, mettere disordine nel lavoro creativo.
Ciascuna puntata sarà composta da tre mini- rubriche (book as idea as idea; cover theory e message in a bottle), con ospiti diversi ogni giorno.
Per seguire la diretta di Radio Festivaletteratura basta "sintonizzarsi" al sito 2020.festivaletteratura.it, oppure accomodarsi nell'area relax di Piazza Alberti, nelle biblioteche della rete bibliotecaria mantovana e in altri luoghi della città dove saranno creati alcuni punti d'ascolto radio nei giorni del Festival (l'elenco completo sarà disponibile su 2020.festivaletteratura.it).
La trasmissione si inserisce nel più ampio progetto Radio Festivaletteratura, Mantova.
Dodici programmi più un giornale radio quotidiano in onda tre volte al giorno, oltre settanta ospiti presenti "in voce" dall'Italia e dal mondo, cinquantacinque ore complessive di trasmissione in cinque giorni. Radio Festivaletteratura vuole portare in tutte la case e a qualsiasi latitudine le storie, i pensieri, il rumore del Festival. Grazie alla diretta giornaliera dalle 10 alle 21 (a cui si aggiungeranno le repliche serali e del primo mattino), da mercoledì 9 a domenica 13 sintonizzandosi sulla nostra web radio si potranno ascoltare interviste a narratori emergenti, disfide letterarie, divagazioni ludico/filosofiche sul tempo, cimenti con i classici, interazioni tra arte e letteratura e molto di più, in un continuum di programmazione guidato dai giovani speaker della redazione radio e che riproporrà in onda l'esperienza immersiva del festival dal vivo.
“(…) Io mi definirei casomai un realista,
dato che non riproduco un’immagine conosciuta nella realtà che ci circonda,
ma produco un’immagine sconosciuta della realtà,
dalla quale dare avvio a un’avventura conoscitiva”.
(Antonio Scaccabarozzi, 2006)
In occasione dei dieci anni trascorsi dalla morte dell’artista, l’Archivio Antonio Scaccabarozzi ha avviato un progetto unico nel suo genere, per rendere accessibile il lavoro di Antonio Scaccabarozzi (Merate 1936 – Santa Maria Hoe’ 2008) a persone con disabilità della vista attraverso la produzione di supporti compensativi e di percorsi laboratoriali dedicati.
Il progetto, visionario e unico nel suo genere, è realizzato dall’Archivio e curato da Elisabetta Modena con la collaborazione di Melissa Tondi e Aurelio Sartorio della Fondazione Istituto dei Ciechi di Milano.
L’opera dell’artista, costantemente impegnato nell’arco di tutta la sua carriera sui temi della percezione e del rapporto che scaturisce tra opera d’arte e fruitore, pare particolarmente significativa per costituire un’interessante opportunità di “traduzione” per un pubblico non vedente.
Il tema delle differenti modalità di percezione anche mentali, e non solo visive, della realtà è intrinseco del resto alla ricerca stessa dell’artista che già nel 1977 scriveva a proposito della serie delle Prevalenze:
“Sul problema dell’ambiguità ho incentrato il lavoro delle “Prevalenze”, ambiguità riferita al concetto, cioè all’atteggiamento mentale e non alla percezione visiva intesa come fenomeno della visione.
Ciò va detto, per non fraintendere le intenzioni, poiché per dare forma a questa ambiguità (contenuta in quei concetti che tendono ad affermare una verità-ovvietà) mi servo della figura geometrica (punto) più volte assunta a modello di ricerca scientificamente percettiva da parte di studiosi della percezione, coi quali, ma solo per motivo di chiarezza sulla funzione dei ruoli, è lecito fare questa distinzione.
Il problema nella “Prevalenze” è, invece, quello di mettere in crisi alcune tranquillizzanti certezze o fissità di pensiero mediante la dinamica dialettica, piuttosto che attraverso nuove o ulteriori certezze”.
Per l’occasione è stata realizzata la tavola tattile di un’opera della serie Prevalenze, mentre alcune opere originali sono messe a disposizione del pubblico per l’esplorazione tattile.
É stata inoltre stampata in Braille una breve biografia (in una versione per adulti e una per bambini) e alcuni testi scritti dall’artista sulle quattro serie: Prevalenze, Essenziali, Quantità libere, Polietileni.
È stata infine prodotta un audio-racconto (disponibile sul sito web dell’archivio) che descrive la vita e le opere di Scaccabarozzi ai vedenti e ai non vedenti, un’occasione per ascoltare anche la voce dell’artista.
Nell’ambito di un workshop con studenti e giovani artisti presso l’Accademia Albertina di Torino, sono state infine realizzate cartoline tattili ispirate al lavoro di Scaccabarozzi con i polietileni.
Le opere originali e gli strumenti compensativi descritti saranno utilizzati nell’ambito di una serie di laboratori aperti a tutti che verranno realizzati nei prossimi mesi nel contesto di istituzioni museali e scientifiche di rilevanza internazionale.
Il progetto, dedicato a ciechi e ipovedenti, presentato in anteprima il 16 novembre presso il Museo di Arte Contemporanea di Lissone in occasione della mostra dell’artista Vo[i]ler Couleur (29 settembre – 18 novembre 2018), sarà anche l’occasione per il pubblico generico di affrontare l’opera dell’artista da un punto di vista diverso e per riflettere sulle potenzialità della ricerca di Antonio Scaccabarozzi quale stimolo e medium di conoscenze e di esperienze fruitive innovative e sperimentali.
Il pensiero sul progetto STAY SAFE_Racconti dagli Archivi di Anastasia Rouchota, Fondatrice e Direttrice dell’Archivio Antonio Scaccabarozzi.
“Archivio: dati, sorprese, segreti, scoperte. Enigmi da risolvere, codici da interpretare, la gioia di capire, l’impegno per mantenere viva la parola dell’artista, fare della sua esperienza qualcosa che serve anche agli altri. Unire il passato col presente e progettare il futuro. In tempi di pausa, anche se relativa, con più tempo a disposizione per riflessione e introspezione, sbirciamo negli Archivi d’artista, vediamo come lavorano, come si propongono, ascoltiamo la loro missione! Ospitiamo dei loro pensieri, delle immagini, delle proposte. Creiamo intrecci, confronti, collaborazioni un campo policromo, multiforme, vivo, giocoso, come la primavera che in questo momento abbiamo più nel cuore.”
L’Associazione Archivio Antonio Scaccabarozzi ha come principale attività quella di studiare, approfondire e promuovere la ricerca e l’opera dell’artista Antonio Scaccabarozzi (1936-2008), considerata nella sua totalità di espressione; a tal fine, porta avanti l’archiviazione scientifica e ragionata della sua intera opera attraverso un database appositamente realizzato e volto a rendere pubblicabile l’intera opera catalogata dell’artista Antonio Scaccabarozzi.
Seguendo gli ideali del pensiero di Scaccabarozzi, l’Associazione promuove la ricerca attorno all’opera dell’artista, incoraggiando le giovani generazioni di studiosi e collaborando attivamente con enti di ricerca nazionali e internazionali. Tra le recenti attività, l’ideazione di un percorso di fruizione dell’opera dell’artista per persone cieche e ipovedenti, sviluppato con l’Istituto dei Ciechi di Milano e la realizzazione di workshop condotti con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti Albertina di Torino, al fine di sensibilizzare i giovani sui temi portanti della ricerca di Scaccabarozzi, temi di valenza universale e sociale quali: la visione e la complessità del rapporto tra percezione e conoscenza; l’ecologia e il riuso dei materiali plastici; la sensibilità nei confronti dello spazio e dell’ambiente; l’idea di un’arte democratica, capace di rivolgersi a tutti.
L’Associazione promuove inoltre giornate di studio, talks e tavole rotonde che partendo da questi temi portanti sensibilizzino il pubblico e coinvolgano il mondo della scienza e della cultura.
Particolare attenzione è inoltre rivolta al valore dell’archivio inteso non solo come mezzo per la catalogazione dell’opera dell’artista, ma anche come motore di relazioni, scambi e collaborazioni con gli altri archivi d’artista.
www.archivioantonioscaccabarozzi.it
Direzione dell’Archivio: Anastasia Rouchota
Curatore scientifico: Ilaria Bignotti
Da lunedì 20 aprile 2020, è online
STAY SAFE_ Racconti dagli Archivi
Da una idea di Ilaria Bignotti e Archivio Antonio Scaccabarozzi, Milano
Coordinamento scientifico di Ilaria Bignotti
Il progetto consiste in piccoli racconti per immagini, parole e pensieri sugli archivi d’artista, direttamente dalla voce dei loro curatori, eredi, e artisti, per riflettere sul valore del tempo e della memoria in questo periodo di attesa.
Al progetto, oltre a numerosi archivi, ha aderito la prestigiosa istituzione della GNAM-Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma con il suo importantissimo Archivio Bio-iconografico, diretto scientificamente da Claudia Palma, che offrirà una selezione di immagini e pensieri tratti dagli oltre venti archivi che fanno parte del Museo. Skira editore ha aderito al progetto #STAYSAFE pubblicando nei suoi canali social le immagini, i documenti e le frasi degli Archivi d'Artista che hanno aderito all'iniziativa.
(vedi al MENU': RACCONTI DAGLI ARCHIVI)
Strettamente collegata con l'esposizione presso il Museo d'Arte Contemporanea di Lissone, il 4 ottobre 2018 alle ore 18.30
verrà inaugurata alla Galleria Clivio, Foro Bonaparte, 48 - Milano
la mostra dedicata al ciclo degli Essenziali, a cura di Alberto Zanchetta, intitolata
Antonio Scaccabarozzi: L’essenziale della pittura
(crediti fotografici: MIMMO CAPURSO)
L'esilio della cornice, l'essenziale della pittura
di Alberto Zanchetta
A detta di Ronald L. Hall ogni arte è astratta per via della sua cornice. Isolando l’opera dal tempo storico e dalla realtà fenomenica, la cornice esclude tutto quanto si trova al di fuori di sé. La “chiusura” rispetto all’ambiente circostante presuppone un confine destinato ad accentrare l’attenzione sul dipinto: lo sguardo viene trattenuto al suo interno, evitando ogni dispersione o distrazione.
I pittori dell’antichità erano soliti ornare i propri dipinti con una cornice dorata che sopperiva a esigenze pratiche ancor più che esornative. La porporina si accostava molto dolcemente con i colori dell’opera, garantendo al quadro di non mescolarsi con la luce degli oggetti che lo circondavano. Per usare le parole di Ortega y Gasset, la cornice dorata immetteva «tra il quadro e il suo ambito reale una cintura di splendore»1. Toccherà agli intransigenti impressionisti il compito di abolire le tradizionali bordature, introducendo al loro posto delle cornici bianche, scelta che venne schernita molto aspramente dal pubblico mentre Felix Fénéon la incensò con particolare enfasi. Lo stesso Fénéon – così come farà Georg Simmel qualche anno più tardi – disapprovava tutti quegli artisti che decoravano le cornici per farne un prolungamento dell’opera; eppure, in quel volgere di secolo nessuno poteva immaginare che di lì a breve la cornice sarebbe stata messa al bando. Quando al MoMA venne ordinata la retrospettiva dedicata a Claude Monet, William C. Seitz decise di rimuovere le cornici di alcuni quadri: «all’inizio le tele messe a nudo sembrarono delle riproduzioni, finché non ci si rese conto di quanto dominassero la parete. Benché non privo di stravaganze, l’allestimento interpretava correttamente il rapporto tra i dipinti e la parete e, con un raro atto di audacia curatoriale, ne seguiva le implicazioni»2. L’esposizione, inaugurata nel marzo del 1960, sarebbe stata foriera di un decennio insofferente all’autorialità della cornice che per secoli aveva preservato l’integrità dell’opera, sancendo il luogo dove si dava il valore del proprio contenuto: la pittura. Erosa la soglia che separava l’opera d’arte dal resto del mondo, il campo pittorico poteva finalmente deflagrare nella sfera del quotidiano. Tuttavia, l’obiettivo non era quello di sovrapporsi alla realtà ma di riavvicinarsi ad essa – una realtà autoreferenziale, non illusionistica, sgravata da escamotage e alibi sovrastrutturali.
Oltre a una comprovata ripulsa nei confronti delle cornici, negli anni Sessanta si avverte un’altrettanto impellente desiderio di smantellare il telaio del quadro. Artisti come Michel Parmentier, Claude Viallat, Patrick Saytour e Giorgio Griffa decidono infatti di abolire lo spessore del dipinto; se effettivamente il quadro non è altro che “colore applicato su un supporto”, tale supporto deve rendere manifesta la propria superficie bidimensionale (fissate direttamente alle pareti, le tele vengono finalmente liberate dalle costrizioni del telaio in legno). A quella stessa generazione appartiene anche Antonio Scaccabarozzi, il quale perverrà agli stessi esiti con il ciclo delle Quantità libere.
Tra i tanti assiomi che ci ha lasciato in eredità, Henri Matisse sosteneva che 10 cm2 di blu sono meno blu di 1 m2 di blu. Osservando le Quantità di Scaccabarozzi viene spontaneo chiedersi perché mai una superficie gialla dovrebbe avere le stesse dimensioni di una dipinta di viola oppure di verde? Scaccabarozzi non era interessato a elaborare una teoria del colore; tenendosi a debita distanza dalla filosofia, il suo ambito di ricerca restava confinato nella fisiologia. Lambiccandosi sulla grammatica e l’ambiguità della visione, egli si preoccupava di affinare lo sguardo e di perfezionare la propria ricerca, quel procedimento – da non confondersi con un metodo, come giustamente aveva notato Flaminio Gualdoni – che iniziava con l’analisi e si risolveva nella sintesi. La pittura veniva da lui assunta come strumento di investigazione che penetra sempre più in profondità, culminando in una verifica oggettiva anziché in una ipotetica verità o in una velleità artistica. Benché i suoi laconici titoli esprimano un truismo che l’opera è tenuta a dimostrare, il loro valore nominale corrisponde a una pratica deduttiva: minando i modelli artistici ormai riconosciuti e istituzionalizzati, le opere dell’artista non sono mai dei postulati ma delle proposizioni empiriche, ossia delle esperienze maturate all’interno della sintassi pittorica.
Scaccabarozzi era solito interrogarsi sulla discrepanza tra un fenomeno osservabile e la percezione che se ne ricavava. L’ampia gamma delle sue sperimentazioni, che a un occhio inesperto possono sembrare assai difformi e persino contraddittorie, verte inevitabilmente sul rapporto – e quindi sulla validità – che vincola l’artefice al proprio artefatto. «Non c’è vera arte senza consapevolezza», sentenziava Oscar Wilde, «e consapevolezza e spirito critico sono la stessa cosa»3. Allo stesso modo, per Alexander Archipenko «il mistero della creatività di un individuo rimane nel suo codice genetico e raramente affiora alla coscienza se non è aiutato dalla saggezza e da un’istintiva capacità di autoanalisi»4.
Intollerante verso una reiterazione che rischia di sfociare in un asfittico manierismo, Scaccabarozzi ha continuato a diversificare il suo operato, conscio del fatto che non sempre si riesce a rafforzare un’idea replicandone il concetto, più spesso si rischia di banalizzarlo o persino di svilirlo. È così che, a cavallo degli anni Novanta, l’artista si cruccia di capire in che cosa consista veramente la pittura. Da dove scaturisce e a quale elemento può essere ri[con]dotta? Com’è ovvio, la sostanza della pittura è al contempo evolutiva ed involutiva: quanto più evolve nelle sue problematiche, tanto più è destinata a involvere verso costrutti elementari, dove le nozioni di “originario” e “originale” finiscono per convergere. Disancorata dalle schematiche categorie della storia dell’arte, la pittura ha sempre avuto l’ardire di spingersi fino al suo culmine invalicabile, oltre il quale tutto svanisce, dissolvendosi e perdendo di significato. Questo limite estremo e irreversibile sancisce l’essenza stessa della pittura. Tendenti alla esemplificazione e non già alla esaustività, le opere di Scaccabarozzi sono [in]formate di questa essenza.
Compattando le tremolanti densità delle Quantità, Scaccabarozzi giunge a formulare gli Essenziali, matrici pittoriche che esistono a prescindere da un qualsivoglia supporto. Riducendo la pittura al sintagma di una pennellata energica e risoluta, l’artista distende gli acrilici per mezzo di una spatola, rinforzandone le cromie con del mastice che ne preserva la sostanza e la struttura. Il colore graduato attraverso la spatola è al contempo singolare e plurale, uno e molteplice, costante e versatile, può assumere uno sviluppo ellittico, finanche allusivo quando si estende in orizzontale, a formare delle “sottolineature”, altre volte in verticale, a simulare delle “colonne”, come nel caso della mostra allestita a Friedberg nel 1993 presso la Galerie Hoffmann. A distanza di un anno, Scaccabarozzi prende in esame un altro elemento architettonico: le grandi sagome romboidali inserite nella pavimentazione della Sala Civica del Comune di Merate che vengono replicate e poi disseminate a parete nell’installazione 25 Riferimenti. Alcuni Essenziali possono assumere la forma di uno “specchio” inclinato, oppure conformarsi agli angoli dell’ambiente espositivo, ma la querelle pittorica non si esaurisce nella semplice geometria, si sforza semmai di ridefinire il coefficiente interno dell’opera. In particolare, gli Essenziali sono un acuto ripensamento della Monochrome Malerei e hanno il merito di essere riusciti a destreggiarsi tra la tautologia e il pleonasmo. Scaccabarozzi sovverte infatti le regole e le definizioni quando decide di accentuare i bordi delle opere con delle “ombre pittoriche” o intitolando le opere per approssimazione (Questo non è nero si legge sulla didascalia di un Essenziale di colore grigio, oppure Questo non è giallo chiaro nel caso di un Essenziale di colore rosso).
Non v’è dubbio che la pittura fosse per Scaccabarozzi un laboratorio intellettuale. Commetteremmo però un imperdonabile errore se definissimo la sua indagine concettuale anziché mentale, minimalista al posto di minimale. Per certo, osservando le sue opere si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una complessa semplicità. Ne rimaniamo affascinati, come quando si scopre qualcosa che – in apparenza – sembra così semplice e ovvio, ma a cui nessuno aveva ancora pensato. «La semplicità è la complessità stessa», aveva detto Brancusi, «ti devi nutrire della sua essenza per comprenderne il valore»5. Scaccabarozzi è riuscito a materializzare e rendere percepibile quell’essenziale che il Petit Prince di Saint-Exupéry definiva essere «invisibile agli occhi»6. Ma per arrivare al nocciolo delle cose, all’essenza, è stato necessario accettare il suo versante opposto, l’assenza, perché ogni scelta è vincolata a un sacrificio.
Essenziali, "Ore 11.30", colore acrilico grigioazzurro e mastice rinforzato, 1991 60,5x119,5 cm
Cornice, telaio e tela non erano più necessari, restava soltanto l’elemento sorgivo della pittura, quel tocco di colore energico ed espressivo che, volente o nolente, chiama in causa una manualità tardo romantico, come a voler avversare la spersonalizzazione e il disincanto della pittura, tipico degli artisti formatisi negli anni Sessanta. Ma la sfida di Scaccabarozzi non poteva dirsi conclusa prima di aver rovesciato il proprio approccio: se effettivamente la pittura si può dare senza il suo tradizionale supporto, può esistere rinunciando alla gestualità del pennello? La riflessione troverà piena conferma nel ciclo dei Polietileni, materia-colore che abbisogna solo di pochi, eleganti e intelligenti accorgimenti. A queste date si innesca quindi un rapporto inverso, quasi antitetico, tra Essenziali e Polietileni che contrappone la corposità all’inconsistenza, l’opacità alla trasparenza, la massa alla vibrazione, la stasi al movimento.
Nella seconda metà degli anni Duemila, l’artista compirà un ultimo rivolgimento della propria praxis, portando a compimento una parabola di azzeramento che ha saputo arricchire i limiti del linguaggio pittorico. Lasciandosi alle spalle espedienti antipittorici come le Iniezioni e le Immersioni, Scaccabarozzi avvertirà l’urgenza di riscoprire una tecnica tradizionale: la velatura. Come in una spirale virtuosa, il viaggio di scoperta che l’aveva impegnato per tutta la vita non era altro che una fondamentale riscoperta della pittura.
In questa sua costante verifica di “qualcosa che valesse la pena di conoscere”, l’artista non ha mai perso di vista il proprio soggetto/ strumento, riuscendo nell’ardua impresa di trasformare se stesso in un’emanazione-della-pittura-pura, ambizione preclusa alla maggior parte degli artisti. Pur affrontando le medesime problematiche dei suoi colleghi, Scaccabarozzi ha adottato soluzioni imprevedibili che ne hanno reinventato il registro tecnico. Anche qualora la sua ricerca rispecchi un preciso orientamento dell’arte internazionale, sarebbe troppo semplicistico equipararlo a qualche esponente della Radical Painting americana, così come agli accoliti della Pittura analitica italiana o della Geplante Malerei tedesca. A discapito di evidenti tangenze, Scaccabarozzi non è stato cooptato in nessuna di queste correnti, ha preferito intraprendere un itinerario in solitaria che a tutt’oggi ne comprova l’unicità e l’irripetibilità.
1 J. Ortega y Gasset, “Meditazione sulla cornice”, in I percorsi delle forme, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 226-227.
2 B. O’Doherty, Inside the White Cube, Johan & Levi, Monza 2012, p. 29.
3 O. Wilde, Il critico come artista, Sugarco, Milano 1980, p. 40.
4 A. Archipenko, L’arte e l’universo, Amadeus, Montebelluna (TV) 1988, p. 68.
CREDITI FOTOGRAFICI MIMMO CAPURSO
Caro Antonio…
Calderara e Scaccabarozzi in dialogo tra il 1970 e il 1975
di Angela Madesani
L’idea di questa mostra, che sono stata chiamata a curare, è di Natascia Rouchota, moglie di Antonio Scaccabarozzi e curatrice del suo archivio. Il titolo è mio, invece, l’ho scelto per fare entrare immediatamente il fruitore nella dimensione epistolare e confidenziale, che è la premessa di questa esposizione. Non si tratta certo di una bi-personale quanto piuttosto della storia di un fortunato incontro tra due uomini, due artisti di rango per cui l’arte è stata la principale ragione di vita.
La mostra segna, appunto, l’incontro tra due uomini di età diverse, intelligenti e generosi, provenienti da due mondi diversi, Calderara nasce da una famiglia borghese nel 1903 ad Abbiategrasso, mentre Scaccabarozzi a Merate, da una famiglia operaia, nel 1936. Il mio testo non parlerà dunque nello specifico dei loro lavori dei quali si è scritto in altri ambiti con grande competenza, quanto piuttosto del rapporto fra due persone che hanno condiviso un comune atteggiamento nei confronti della vita e dell’arte.
Le esatte circostanze del primo incontro sono sepolte con i due protagonisti. Certo è che è avvenuto nel 1970. Secondo la moglie di Scaccabarozzi (1) a promuovere l’incontro sarebbe stata Maria Cernuschi, moglie separata di Gino Ghiringhelli e con lui fondatrice della galleria Il Milione di Milano, nei primi anni ’30. Una donna assai pragmatica che aveva a cuore il lavoro del giovane artista e che aveva ceduto, ancora in vita, la sua bella collezione di pittura astratta al Comune di Genova. La Cernuschi aveva tra l’altro casa a San Remo, dove l’aveva anche Anna Maria Azzoni. Calderara e la moglie Carmela erano spesso ospiti di quest’ultima. Immaginiamo, dunque, che in queste occasioni abbia potuto fare la conoscenza di Maria Cernuschi. Già nel 1969 Scaccabarozzi inizia a dare vita agli Strutturali, un programma di lavoro basato sul metodo, che dà i risultati migliori nel suo superamento, rendendo importanti quegli aspetti imprevedibili che si succedono inattesi, per usare le sue stesse parole.
Crea opere a punto di vista variabile: dattilografia, opere di legno, opere di tela fustellata, opere-ambiente, dattilopie. «[…] È questa per lui un’attività “mentale” che diventa “fisica” per poi risultare “poetica” […]» (2). Il momento nel quale il giovane pittore inizia a utilizzare il segno, il punto che sarebbe divenuto, per lungo tempo, il centro del suo interesse. «Con il segno aveva conquistato una certa fama e prestigio, in particolare grazie alla stima di Antonio Calderara, un artista che viveva sul lago d’Orta e aveva molte conoscenze negli ambienti artistici in Germania e in Svizzera. […] La generosità di Calderara insegnò ad Antonio a comportarsi nel suo stesso modo, cosa assolutamente rara nel mondo degli artisti» (3).
Lo stesso Scaccabarozzi, intelligente quanto preciso teorico del suo lavoro, scrive in quello stesso anno:
«Il tipo di organizzazione fra i diversi gruppi, permette uno svolgimento continuo oppure circoscritto del fenomeno, la cui energia è basata sulla dualità che si stabilisce a tutti i livelli della concezione. dualità, all’interno delle unità, fra la direzione e la sezione al vivo; dualità, fra la funzione propria delle unità e il destino generale dell’insieme; dualità, nel rapporto dei gruppi d’insieme, sempre in tensione. Le accumulazioni degli elementi traslati, rotanti, in espansione, e diminuzione graduale, generano vitalità, essendo essi all’interno della costruzione in un rapporto bilaterale di forze.
[…] l’ingranarsi delle forme, provocherà lo spettatore a spostarsi per verificare una trasformazione evolutiva, dinamica dell’immagine, da una visione piana ad una visione spaziale» (4).
Consultando le carte dell’Archivio, troviamo che la prima mostra che vede uniti i due artisti è del maggio 1970, presso il Centro La Comune di Brescia, dove Scaccabarozzi aveva esposto anche nel febbraio dello stesso anno. Il titolo della collettiva, Riusciranno i nostri artisti a fare la storia dell’arte? Antologia di materiali del centro la comune e delle edizioni amodulo, è mutuato da un film di Ettore Scola del 1968. È questa l’ultima mostra del centro, gestito da Sarenco (5), che pubblica anche il catalogo generale delle Edizioni Amodulo, 20 titoli x 20 operazioni d’avanguardia, dove sono comprese le opere dei due artisti. Nella copia di proprietà di Scaccabarozzi, l’artista, a matita aveva scritto accanto alla segnalazione del suo volume in 50 esemplari, con testo i Achille Bonito Oliva (6) che il volume non era mai stato pubblicato. E così è andata.
Nel novembre 1970 i due artisti sono di nuovo insieme in una mostra organizzata a Bergamo, al Centro Internazionale Ricerche Plastiche, si tratta di arte moltiplicata internazionale e gli organizzatori sono la galleria Colophon di Milano, la galleria Sincron e le Edizioni amodulo di Brescia. E ancora a Brescia nello stesso mese del 1970 li troviamo uniti alla Galleria Santa Chiara nella mostra Aspetti del visivo.
Tra i due uomini nasce sicuramente un’amicizia, un rapporto di confidenza (7). Tanto che per il Capodanno del 1970 Calderara invia a Scaccabarozzi un augurio un po’ particolare. Ne ricicla uno che gli era stato inviato dalla Galleria La Polena (8) di Genova, progettato da uno dei più importanti grafici europei del periodo, Fronzoni (9), edito da Nava di Milano, nota per la straordinaria qualità e ci scrive all’interno in penna verde:
«Ti mando questo augurio della Polena perché tu sia informato dell’immagine progettata da Fronzoni.
A me pare uno Scaccabarozzi. Se sbaglio scrivimelo. Affettuosamente Antonio Calderara».
Il tono è inequivocabile, di fiducia, confidenza e anche di protezione da parte del più vecchio nei confronti del più giovane.
Ancora a gennaio del 1971 la rivista NAC 10) riporta le lamentele di Ennio Moruzzi dell’Associazione Artistica «Ottone Rosai» in occasione della mostra organizzata, dal titolo Appunti sul nostro tempo Nuove forme della pittura (11), dal 16 al 24 gennaio 1971, con opere fra gli altri di Marina Apollonio, Mirella Bentivoglio, Antonio Calderara, Giovanni Campus, Sandro De Alexandris, Jochen Gerz, Emilio Isgrò, Ugo La Pietra, Bruno Munari, Antonio Scaccabarozzi, Timm Ulrichs, Angelo Verga, Arturo Vermi. Manifestazione organizzata, secondo il Moruzzi con l’appoggio di Calderara.
«[…] Per quanto riguarda le presenze degli artisti in catalogo, salvo le adesioni di Calderara, di Fabiano e di pochi altri, il resto è silenzioso così come silenzio è stato quello della critica o degli estensori delle cronache d’arte (anche se a questo siamo ormai abituati) […]»
Il 29 gennaio Calderara scrive a Scaccabarozzi una lettera da San Remo:
«Caro Scaccabarozzi, come mi fa piacere leggere nella tua lettera che si crede ancora nella poesia.
Io non solo credo, ma sono convinto che senza poesia non vi è (sic) l’arte. L’immagine che ti ho mandato io è fredda, meccanica, inutile e la tua reazione, carica di umanità, non può che recarmi grande soddisfazione.
Mi auguro e ti auguro che la crisi sentimentale della quale mi fai cenno, abbia trovato nella giusta misura l’equilibrio e l’ordine per ricomporsi in un valore di esperienza. Sono i fatti della vita, ad essi non ci si deve abbandonare, per essi non bisogna mai perdere il controllo di noi stessi.
Voglio proprio sperarti in una crisi felicemente superata e nella serenità ritrovata, nuovo entusiasmo per il tuo lavoro. Fatti vivo alla galleria Milano, io, prima di partire, come tu sai, avevo parlato di te.
Ti ringrazio per la stima, che ti ricambio, non considerarmi un grande amico, io sono un amico senza il grande.
Con Carmela e Anna Maria a te e a tua moglie (12) i saluti più cordiali
Antonio Calderara, Corso Mazzini 191, 18038 San Remo».
Purtroppo non conserviamo la risposta di Scaccabarozzi alla quale Calderara fa riferimento. Forse si tratta della risposta che l’artista invia in risposta alla missiva con l’invito della Polena? Data la descrizione dell’immagine, probabilmente sì.
Interessante il riferimento alla Galleria Milano, gestita da Carla Pellegrini, che si occupava del lavoro di Calderara. Probabilmente Scaccabarozzi, come per sua abitudine non si è mai recato in tale galleria per chiedere di fargli una mostra. Preferiva essere cercato piuttosto che cercare in ambito lavorativo. Nel maggio del 1971 i due artisti sono coinvolti nella mostra bianco e bianco alla galleria Uxa (13) di Novara. Insieme a loro sono artisti importanti quali Piero Manzoni, Enrico Castellani, Lucio Fontana, Jorrit Tornquist, Paolo Scheggi, Turi Simeti, Raimund Girke e altri ancora.
Nel dicembre del 1971 è un’altra lettera di Calderara in cui manda all’amico l’indirizzo di Guidi e di Girke e si felicita della decisione del giovane di dare vita a una sua collezione. Probabilmente la collezione alla quale si fa riferimento è l’inizio dell’attività galleristica con Giorgio Casati.
I rapporti che stavano nascendo con gli artisti che Scaccabarozzi conosce in Svizzera e in Germania, gli fanno pensare di aprire una galleria dalle sue parti. Un atteggiamento che con diverse modalità era stato quello di Calderara, che aveva creato una raccolta museo nella sua casa di Vacciago, raccolta dove è presente anche una tecnica mista su carta del giovane amico, datata 1974 (14). Così quando Scaccabarozzi incontra il giovane Giorgio Casati, colto e benestante, gli propone di aprire uno spazio dedicato all’arte contemporanea in Brianza, spazio del quale l’artista sarà iniziatore. La prima sede è a Osnago e il nome della galleria è La Cappelletta a gestirla sono Casati e la moglie, Gabriella Marchesi. Nel 1971 la galleria, che parteciperà anche a Art Basel, si trasferisce a Merate con il nome di Studio Casati.
Nella galleria che resterà aperta per qualche anno, arrivano per esposizioni e residenze artisti del calibro di Dadamaino, Joseph Beuys, Gianni Colombo, François Morellet, Jorrit Tornquist, Grazia Varisco, Giuseppe Spagnulo, Nanni Valentini, Herbert Distel.
Ancora una volta un punto in comune tra i due artisti: la volontà di portare l’arte in luoghi, solo apparentemente, a essa non deputati.
Ambedue portano le persone nei loro luoghi, quelli dove pensano, vivono, lavorano. A Merate, come a Vacciago, arrivano critici, collezionisti e appassionati provenienti da Milano, certo, ma anche dal resto d’Italia e dall’estero.
Vedere un’opera di Calderara, all’interno del suo contesto ha un senso diverso rispetto al vederla appesa nelle sale dei grandi musei internazionali, così come per Scaccabarozzi.
Ho avuto il privilegio di conoscere Antonio, nel primo decennio degli anni Duemila, nel suo studio a Montevecchia e cogliere la luce, lo spirito, l’atmosfera di quei loghi di verde e di acqua mi pare sia stato decisivo per farmi apprezzare il suo lavoro.
Li troviamo di nuovo uniti nel marzo 1972 all’interno di un numero, il decimo, di Lotta Poetica, una rivista diretta da Paul de Vree & Sarenco, edita tra la provincia di Brescia e il Belgio (15). Scaccabarozzi cura due pagine di Arte sistematica, nelle quali oltre al suo lavoro, propone quello di Ewert Hilgemann, Ad Dekkers e Herman de Vries, in quarta di copertina è la pubblicità di un libro con serigrafia di Calderara, pubblicato da amodulo.
Tra il settembre e l’ottobre del 1972 sono di nuovo insieme alla galleria Uxa, a Novara, e dal 25 novembre al 22 dicembre espongono entrambi alla Galerie Th.Keller a Monaco di Baviera.
Tra il 1974 e il 1975 Scaccabarozzi introduce il colore, eliminando il rilievo. Il giallo e il bianco fluorescenti utilizzati prima di questo momento erano intesi come non colori, utili solo alla visibilità delle opere.
A partire dal 1974 entrano in scena le Prevalenze. Vanni Scheiwiller scrive nel testo del 1975, che accompagna la mostra presso lo Studio Casati a Merate:
«PREVALENZE si chiamano le opere odierne, perché non si sa in fondo chi prevale: le strutture, gli spazi o i colori, una verticale o un’orizzontale. Il colore serve solo per diversificare le verticali dalle orizzontali. […] L’autore offre un’idea generale dentro cui sviluppa dei piccoli lavori, lasciando allo spettatore la scelta delle possibilità»
È la sua un’arte del dubbio, che non offre risposte certe, ma che apre ulteriori quesiti, emancipando il ruolo dello spettatore, come era anche per il Calderara astratto.
Nel 1975 li troviamo coinvolti, insieme, in una serie di esposizioni. Tra il 22 gennaio al 3 febbraio a Il Cortilaccio di Torino. Nel novembre 1975 Studio Casati partecipa ad ArtCologne e porta il lavoro di entrambi. E ancora entrambi partecipano a Momenti e tendenze del Costruttivismo, insieme a Gianni Colombo, Dadamaino, Hsiao-Chin, François Morellet e Jorrit Tornquist, presso la Galleria Buonaparte di Milano.
Negli ultimi anni della sua vita le condizioni di salute di Calderara, malato di cuore cronico, peggiorano nettamente. Forse questo è il motivo dellamancanza di comunicazione scritta tra i due. Il loro diventa un rapporto più ideale che reale, che per Scaccabarozzi è sicuramente continuato sino alla fine dei suoi giorni, nell’agosto del 2008, trent’anni dopo la morte dell’amico.
Note
- - Da una conversazione tra chi scrive e Natascia Rouchota, dicembre 2019.
- - V. Scheiwiller, Studio Casati, Merate, 1975.
- - Rouchota, Antonio Scaccabarozzi, L’emozione del metodo, Crocetti Editore, Milano, 2012; p.27.
- - Scaccabarozzi, Antonio Scaccabarozzi, Centro La Comune, Brescia 1970; la piccola pubblicazione è costituita da due fogli uniti con etichette circolari autoadesive e accompagna la mostra che ha avuto luogo al Centro tra il 7 e il 13 febbraio 1970.
- - Sarenco (1945-2017), nome d’arte di Isaia Mabellini, è stato un artista, organizzatore e gallerista bresciano particolarmente noto nell'ambito della poesia
- - Antonio Scaccabarozzi «A & T» la progettazione dattiloscopica testo di Achille Bonito Oliva questa edizione contiene 6 dattiloptipie in 50 esemplari, numerate e firmate dall’autore prezzo lire 000
- - Mentre nell’Archivio Scaccabarozzi sono state trovate alcune missive di Calderara che qui riportiamo, lo stesso non è avvenuto per quelle di Scaccabarozzi presso l’Archivio
- - La Galleria La Polena di Genova, il cui direttore era Edoardo Manzoni, affiancato da un’altra importante figura del gallerismo genovese, Rosa Leonardi, ha portato nel capoluogo ligure dagli anni Sessanta agli Ottanta, fra le altre, le opere dello Spazialismo del Nucleare, della Optical Art dell’Arte
- - AG Fronzoni, nome d'arte di Angiolo Giuseppe Fronzoni (Pistoia, 5 marzo 1923 – Milano, 8 febbraio 2002), è stato un designer e educatore italiano, grafico e
- - NAC Notiziario di Arte Contemporanea, Edizioni Dedalo, marzo
- - La mostra secondo Moruzzi, era accompagnata da un catalogo che non abbiamo, tuttavia, trovato né presso l’Archivio Scaccabarozzi né presso il Sistema Bibliotecario
- - Carmela e Anna Maria sono rispettivamente la moglie e la segretaria di Calderara, mentre la moglie di Scaccabarozzi, è la sua prima
- - La Galleria d’arte contemporanea Uxa è stata fondata a Novara nel 1970 dalla storica dell’arte e curatrice ceca, Miroslava Hajek, fuggita dal suo paese, dove è potuta tornare solo dopo il 1989, a causa dell’invasione Tra il 1970 e il 2000, il centro culturale UXA - Studio d'Arte contemporanea, da lei diretto, ha seguito il lavoro di artisti che utilizzano le nuove tecnologie e nuovi media e ha costituito un importante punto di riferimento artistico e culturale.
- - Antonio Scaccabarozzi, Senza titolo, tecnica mista su carta 40 x 40 cm, 1974.
- - Nella rivista, molto nello spirito degli anni Settanta, oltre ad articoli sulla Poesia Visiva, a proclami contro Flash Art, rivista «serva del potere borghese», si chiede la destituzione di Palma Bucarelli dalla direzione della Gnam di Roma per la sua «implicazione nel vergognoso affare Enea Ferrari».
L'Archivio Antonio Scaccabarozzi è lieto di annunciare la mostra:
Caro Antonio...
a cura di Angela Madesani
in collaborazione con Archivio Antonio Scaccabarozzi e Fondazione Antonio Calderara
Galleria Clivio, Milano
11 febbraio - 19 aprile 2020
Opening
Martedì 11 febbraio 2020, ore 18:30
Dall’11 febbraio al 19 aprile 2020 la galleria ospiterà lavori e documenti che testimoniano il rapporto professionale e di amiciziache ha unito Antonio Calderara e Antonio Scaccabarozzi.
Seppure anagraficamente distanti, i due artisti, legati da una profonda stima reciproca, hanno intrattenuto un ricco rapporto epistolare, non come maestro e allievo ma in quanto interpreti del proprio tempo, confrontandosi sul loro percorso creativo e sulla loro ricerca.